Uno dei concetti chiave utilizzati in economia politica per comprendere come vengono effettuate le scelte dagli agenti è quello di costo-opportunità. Quando scelgo se andare al cinema non valuto tanto il costo monetario del biglietto d’ingresso, ma le alternative alle quali rinuncio utilizzando quella somma per andare al cinema: una pizza con gli amici, un pieno allo scooter, etc.
Ogni scelta implica cioè una rinuncia alle alternative possibili. È con questo criterio che si muove il comportamento degli agenti economici, siano essi individui, famiglie, imprese, autorità pubbliche.
Quello che è mancato fino ad oggi nel dibattito sul MES in Italia è una visione sul costo-opportunità di accedere ai fondi del MES. E anche un inquadramento sulla natura e il ruolo del MES nella sua evoluzione storica e nei suoi possibili esiti futuri.
Due elementi che, uniti a dibattiti fortemente distorti da ragioni ideologiche e politico-elettorali, hanno contribuito ad alimentare una narrazione caotica. Di cui non abbiamo davvero bisogno.
Come è noto, il MES nasce nel 2012 per fornire agli Stati uno strumento parzialmente fuori dalla cornice dei Trattati UE, in modo da poter essere attivabile in maniera più rapida, efficace e credibile a salvataggio di un paese, la Grecia, che (a causa di una scellerata gestione macroeconomica) non era più in condizione di accedere al credito sui mercati finanziari.
Il MES nasce quindi come società di diritto pubblico internazionale costituita dai paesi membri dell’eurozona, con una governance intergovernativa.
Per la sua missione salva-Stati, il suo Statuto prevede che, a fronte dell’erogazione di finanziamenti, il MES chieda delle condizioni estremamente pesanti (che possiamo definire senza mezzi termini ‘lacrime e sangue’): essenzialmente riduzione della spesa pubblica, privatizzazione di asset anche strategici, ristrutturazione del debito.
Dopo la Grecia, anche Irlanda, Portogallo, Spagna e Cipro hanno chiesto l’accesso alle linee di credito del MES, con importi decisamente inferiori e per scopi di natura transitoria (essenzialmente, per ricapitalizzare il sistema bancario), quindi con impatto sociale estremamente limitato. L’intervento salva-Stati del MES si è concluso nell’agosto del 2018, con la fine del programma di assistenza alla Grecia.
In vista dell’esaurirsi del suo compito originario, la Commissione Europea aveva pubblicato nel dicembre 2017 un documento in cui prospettava la trasformazione del MES in Fondo Monetario Europeo ed il suo rientro nell’alveo della legislazione europea. Una proposta alla quale è poi seguita quella del Consiglio per un uso del MES come backstop per la risoluzione bancaria nell’ambito dell’Unione Bancaria Europea; una riforma unanimemente accettata ma ancora non ratificata dai Governi, sorpresi in questo processo dal Covid-19.
È in questo clima di revisione, anche profonda, del MES che deve essere inquadrata la proposta emersa in marzo di utilizzare parte delle risorse del MES (che, lo ricordiamo, ha un capitale di oltre 700 miliardi, di cui 80 versati, ed una capacità di credito di 500 miliardi, una parte dei quali già erogati) a sostegno di spese emergenziali per fronteggiare la pandemia: 240 miliardi di euro.
Trattandosi di un sostegno finanziario contro l’emergenza, non un salvataggio, è stato accettato il principio che l’unica condizione richiesta per accedere al MES sia l’utilizzo di quei fondi per gestire l’emergenza sanitaria.
Ciascun paese può, a sua discrezione, accedere ad un finanziamento fino al 2% del PIL (nel caso italiano oltre 36 miliardi di euro) a tasso agevolato, di fatto lo 0,1%.
È qui che assume rilevanza la considerazione relativa al costo-opportunità. Perché si tratta di spese (potenziamento del settore sanitario e gestione dell’emergenza) che il nostro paese dovrebbe comunque affrontare, visto che la pandemia rischia di perdurare nel tempo. E dovrebbe affrontarle indebitandosi sul mercato dei capitali, ad un tasso che oggi è stimabile ad oltre il 2%.
La matematica ci dice che, dal punto di vista strettamente economico, accedere alle risorse MES significa risparmiare ogni anno circa 600 milioni di euro su un orizzonte temporale che può essere fino a 10 anni: oltre 6 miliardi di risparmio complessivo.
Fatti questi due conti, ci dobbiamo naturalmente chiedere quali siano gli oneri meno visibili dell’accesso alle risorse MES. Ed è qui che si è scatenata la retorica anti-MES. Che si è concentrata in particolare su due elementi.
La prima è il rischio di passare, dopo un po’ di tempo, alla cosiddetta ‘enhanced supervision’, una sorveglianza stretta da parte delle autorità europee sull’andamento macroeconomico del paese. Con possibili richieste (anche pesanti) di aggiustamento.
Ora, è vero che, alle condizioni attuali, a meno che non riusciamo a far passare un criterio meno stringente per l’intero periodo/pacchetto per la gestione dell’emergenza (ancora negoziabile) o uno specifico Memorandum of Understanding (che regola le modalità con cui il paese è chiamato ad onorare il debito, anch’esso tutto da negoziare) più favorevoli, finito il periodo dell’emergenza scatta una maggiore sorveglianza macroeconomica, dati i livelli di partenza già critici del debito pubblico italiano. Ma scatterebbe comunque! Anzi, scatterà comunque! Perché gl’indicatori fiscali dell’Italia la portano verso un rischio di insostenibilità che deve essere attentamente monitorato anche all’interno dei ‘normali’ strumenti della governance europea (semestre europeo, etc).
Il secondo punto della critica al MES è quello connesso con la seniority del suo debito, il fatto cioè che il MES sia un creditore privilegiato rispetto ad altri creditori. La preoccupazione concerne il fatto che questo elemento potrebbe scoraggiare i mercati dal fornire liquidità al paese (o a pretendere un tasso d’interesse più alto sui titoli emessi per compensare il rischio-paese). Ma questo problema si concretizzerebbe solo se venisse messa in discussione l’intenzione del paese (o della parte politica che solleva il problema, se fosse al governo) di restituire tutti i debiti contratti. Il che mi pare gravissimo. Comunque.
La solvibilità dell’Italia è assicurata dalla possibilità di accedere ad una ricchezza mobiliare privata che è quasi il 300% del PIL. Ma soprattutto dovrebbe essere assicurata dai flussi di cassa generati dalla crescita economica. Per questo è necessario che il paese si muova su un sentiero di sviluppo solido e duraturo, con scelte strategiche improntate agli investimenti, all’innovazione; e non alle spese improduttive, che finiscono solo per impoverirlo ulteriormente.
In sintesi: il MES non è uno strumento perfetto; né ha una governance trasparente e democratica. Potrebbe inoltre più proficuamente essere utilizzato per finanziare investimenti infrastrutturali materiali ed immateriali a lunga scadenza, come abbiamo proposto qualche giorno fa con Alfonso Iozzo.
Ma è congegnato in modo da poter fornire liquidità immediata destinata a spese che dovremo comunque affrontare. Con i rischi connessi ad un indebitamento ulteriore che comunque il paese si assumerà.
Invece che discutere di ‘MES si’ o ‘MES no’, sarebbe molto meglio indirizzare il dibattito su come finanziare una ripresa solida e sostenibile in termini finanziari, ambientali, sociali.