Una città di confine, un porto di frontiera, un manager capace, una legge da rivedere. Questi gli ingredienti di una vicenda che sta tenendo banco in questi giorni a Nord Est, ma che in realtà pone un tema di sicura valenza nazionale. La storia, in sintesi, è la seguente: l’Anac (Autorità nazionale anticorruzione) ha dichiarato decaduto Zeno D’Agostino dalla carica di presidente dell’Autorità di Sistema Portuale del Mare Adriatico Orientale, con sede a Trieste, perché in base alla normativa anticorruzione la nomina non sarebbe stata effettuabile, essendo lo stesso D’Agostino – in quel momento – già presidente della società Trieste Terminal Passeggeri, partecipata per il 40 per cento proprio dalla medesima Autorità portuale.
In sostanza, in quanto presidente della partecipata, a D’Agostino non sarebbe stato conferibile l’incarico di presidente della partecipante (appunto, l’Autorità di Sistema Portuale del Mare Adriatico Orientale). Fin qui, la prima parte della vicenda. Sennonché, tale è l’apprezzamento verso la persona e il lavoro che ha svolto nei 4 anni dalla nomina ora invalidata – rilanciando l’hub giuliano con numeri eloquenti – che è accaduto un fatto raro per il nostro Paese: oltre alle imprese e ai lavoratori portuali, anche tutta la politica del territorio, da destra a sinistra, ha solidarizzato con D’Agostino, e persino la Diocesi di Trieste ha associato la sua voce, invocando una soluzione saggia – sul piano giuridico e su quello prettamente politico-istituzionale – della vicenda. In situazioni di questo tipo ha una relativa importanza se la decisione di Anac sia ineccepibile sotto il profilo tecnico-giuridico e quale verdetto emetterà il Tar Lazio, già adito.
Occorre guardare la luna, non il dito. Questa vicenda pone un tema più ampio, che è quello – e non meno – se riaprire o meno la discussione (specie nel difficile tornante della storia economica del Paese che stiamo attraversando) riguardo al rapporto, cruciale, fra lotta alla corruzione e meritocrazia. Perché una cosa è fermare un manager pubblico di provata capacità che abbia compiuto un illecito, altro è – come nella vicenda di Trieste, invece – fermare un manager pubblico di provata capacità per la presunzione di sospetto che, in base alla normativa vigente, “deve” avvolgere senza se e senza ma anche chi viene nominato nella partecipante per il fatto, in sé, di avere già un ruolo nel Cda della partecipata.
Se il caso D’Agostino fosse una partita di calcio, allo stato il risultato, per il sistema Italia, sarebbe il seguente: cultura del sospetto 1 – meritocrazia 0.
Ed è una vicenda che – nell’interesse del Paese, piuttosto che in quelli soltanto di Trieste e di D’Agostino – è bene che non finisca così, e che, soprattutto, deve trovare una soluzione non semplicemente giudiziaria, ma (come dice il Vescovo del capoluogo giuliano) politico-istituzionale. Una soluzione che riguardi non tanto Anac (che si è limitata ad applicare una legge), ma la normativa anticorruzione, che non è certamente superata e da buttar via (il problema corruzione esiste, è fuor di dubbio), ma probabilmente contiene alcuni eccessi regolatori da rivedere (fermare un manager pubblico di provata capacità in nome della presunzione di sospetto circa una possibile ed eventuale commistione di ruoli è infatti, altrettanto certamente, un prezzo troppo alto per il Paese, per Trieste, per D’Agostino, per tutti).