Su questa testata abbiamo visto come la Via della Seta – programma centrale della Repubblica Popolare Cinese, abbracciato circa un anno fa con tanto entusiasmo dall’Italia (unico tra i grandi Paesi dell’Unione europea) – abbia inciampato in Africa, dove molti Stati si oppongono a rimborsare gli onerosi prestiti contratti con Pechino per progetti la cui utilità oggi appare quando meno dubbia. L’Africa, però, non è che una parte marginale della nuova Via della Seta.
Molto più importante è l’Asia centrale – Stati come il Kazakhstan, il Kyrgyzstan, il Tajikistan, il Turkmenistan, e l’Uzbekistan, le cui popolazioni, spesso di ceppo uralico-mongolo-tartaro, assoggettate per anni al giogo dell’Impero zarista, prima, e dell’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche (Urss), poi, hanno trovato, a ragione o a torto, un forte spirito nazionale, e non vogliono finire al servizio della Repubblica popolare cinese, con cui confinano. La principale fonte di valuta estera del Kyrgyzstan è la vendita di oro delle sue miniere alla Cina. Le esportazioni alla volta della Cina sono anche il pilastro della bilancia commerciale del Kazakhstan, del Tajikistan, del Turkmenistan, e dell’Uzbekistan. Si tratta in gran misura di esportazioni di gas naturale tramite il gasdotto Cina-Asia centrale, una delle componenti principali della Via della Seta.
I rapporti tra gli Stati dell’Asia centrale e Pechino dovrebbero essere idilliaci anche in quanto Kazakhstan, Kyrgyzstan, Tajikistan, Turkmenistan, e Uzbekistan non sono proprio democrazie liberali. Ciascuno Stato dell’Asia centrale è retto da un uomo forte, sufficientemente autoritario da fruire di un vero e proprio culto della personalità e di non avere, tra i confini del proprio Stato, né stampa indipendente che gli faccia le bucce né una dissidenza. In effetti, i suoi concittadini sono ben contenti di essere stati liberati dal gioco russo-imperiale prima e russo-sovietico poi da permettere limitazioni che in Occidente non sarebbero consentite.
Sono, però, anche molto fieri. Vi ricordate i cavallerizzi di Michele Strogoff , il romanzo di Jules Verne del 1876 adattato più volte per il cinema e per serie televisive? Fedelissimi al feroce Feofar Khan facevano scorribande nelle praterie della regione che è oggi al confine tra gli Stati dell’Asia centrale e la Cina.
E proprio una cavalcata in quel di At-Bashy, una città di frontiera tra il piccolo Kyrgyzstan e l’immensa Cina ha dato qualche settimana fa un segnale a Pechino che l’Asia centrale è tutt’altro che rose e fiori per la Via della Seta. I cosacchi Kyrgyzi hanno galoppato per bloccare un nodo centrale: un interporto di 275 milioni di dollari che sarebbe stato uno snodo essenziale della Via della Seta ma che i Kyrgyzi vedevano come uno strumento per portare via a loro la prateria e sostituirla con vasti centri di logistica e commercio i cui posti di lavoro sarebbero stati occupati da immigrati cinesi. Il governo ha, silenziosamente, benedetto la cavalcata di protesta. Quasi in parallelo, in Kazakhstan, una serie di proteste “popolari” ed “autogestite”, ma non ostacolate dall’autocrate locale, hanno bloccato il trasferimento, nel quadro della Via della Seta, di industrie manifatturiere, ormai tecnologicamente obsolete, dalla Cina allo Stato dell’Asia centrale. Le proteste hanno anche toccato il tasto della repressione nei confronti della popolazione mussulmana nello Xinjiang. Nonostante Pechino avesse richiesto esplicitamente che in cambio di quelli che sarebbero stati copiosi investimenti in infrastruttura, questo argomento non venisse trattato in nessun modo (media, manifestazioni pubbliche) nel suo Paese. La risposta – come si è visto – è stata una pernacchia.
La Cina ha replicato affermando che a causa della recessione mondiale dovrà rinegoziare gli acquisti di gas naturale da Kazakhstan, Turkmenistan, e Uzbekistan. Popolazioni che hanno tenuto testa agli Zar ed a Stalin e che sentono di avere un legame stretto con i mussulmani sotto il giogo di Pechino.
Vedremo come andrà a finire.