Secondo una recente inchiesta dell’Associated Press, l’Organizzazione mondiale della sanità era frustrata dalla scarsa condivisione di informazioni fornita dalla Cina riguardo al coronavirus. Stando ai documenti riservati ottenuti da AP, l’Oms avrebbe lodato pubblicamente il governo cinese per il suo impegno nella lotta all’epidemia solo per mostrarsi benevola e ottenere in cambio maggiore disponibilità da parte di Pechino.
Da settimane si parla di insabbiamenti voluti dal Partito comunista cinese sulle informazioni fondamentali per conoscere e contenere il virus. Attività che, al di là degli ultimi sviluppi (non è chiaro quanto difensivi o proattivi), sembra possano essere ricollegabili alla penetrazione cinese all’interno della struttura multi-nazionale che si occupa di sanità – così come di altre organizzazioni internazionali.
Formiche.net a tal proposito pubblica una ricostruzione fatta da Emanuele Rossi (autore su queste colonne e analista di geopolitica e relazioni internazionali) pubblicata nel volume “Mondo-Virus. Storia e geopolitica del Covid-19“, edito da Bandecchi e Vivaldi a cura di Michel Korinman, professore emerito di Geopolitica alla Sorbona di Parigi e tra i massimi cultori della materia.
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Durante i giorni caldi dell’epidemia negli Stati Uniti, e mentre la Cina si accingeva a ripartire con sulle spalle tutto il peso delle faglie interne eccitate dalla crisi, il presidente americano Donald Trump ha deciso di tagliare i fondi all’Organizzazione mondiale della sanità. È interessante raccontare la vicenda perché spiega in parte il gioco globale della Cina e segna un altro territorio di scontro tra Cina e Stati Uniti, un indizio per il futuro che verrà – immutato rispetto a presente e passato, perché istinto degli imperi e l’eliminazione reciproca.
L’accusa di Trump è pesante: mala gestione e insabbiamenti. Cui prodest? Alla Cina. Secondo la ricostruzione americana, l’organizzazione guidata dall’etiope, Tedros Adhanom Ghebreyesus, avrebbe favorito la volontà cinese di non diffondere troppo approfonditamente le informazioni sull’epidemia di Wuhan. Non ci sono prove, soltanto ricostruzioni laterali. Proviamo a delinearle.
La questione per cui Trump – sempre piuttosto critico con certi scatoloni multilaterali e globalisti – critica l’Oms parte da lontano. La Cina svolge un ruolo importante in Africa, in particolare in Etiopia, dove l’attuale direttore generale dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus, era ministro della sanità e poi ministro degli affari esteri. Questa influenza spesso opaca, e il sostegno di Pechino a Tedros, sembrano aver pesato sulla posizione dell’OMS sulla crisi del SarsCoV2. Le conseguenze di queste decisioni si sarebbero fatte sentire oggi a livello globale e potrebbero aver contribuito a minare un sistema multilaterale indebolito. La questione all’interno dell’Oms potrebbe essere parte di quei tentativi di insabbiamento che la Cina ha inevitabilmente compiuto, quanto meno per non rendere visibili a livello internazionale quei problemi nella catena di comando che hanno prodotto la crisi.
Ma partiamo da lontano perché la ricostruzione è utile alla comprensione dell’atteggiamento cinese, delineando qualcosa per il futuro. I contatti cinesi con l’Etiopia si sono ravvivati negli anni Novanta del secolo scorso, in particolare quando nel maggio del 1996 l’allora segretario del partito Jiang Zemin visita capitali africane, tra cui Addis Abeba. La metà degli anni ’90 ha segnato una svolta nella visione cinese del continente africano, prima considerato importante, ma nel decennio precedente uscito dal panorama strategico del Partito.
Il rinnovato interesse per l’Africa ha risposto a diverse motivazioni, nuove esigenze in termini di risorse naturali ed energia, sostegno dell’Unione africana in ambito delle Nazioni Unite su questioni di interesse diretto per la Repubblica popolare cinese, e una strategia di pressione su Taiwan. Pechino pensava di usare i partner africani, che allettava con investimenti e fondi, per ridurre lo spazio diplomatico dell’isola. Tutto succedeva dopo la prima elezione a suffragio universale di un presidente di Taiwan.
Negli anni a seguire, con Hu Jintao (successore di Jiang) il partenariato africano sarà via via più strutturato, e successivamente, nel 2013, proprio un tour africano sarà l’oggetto del primo viaggio di Xi Jinping – appena eletto alla guida del Partito e del paese. L’ottica è sempre la cooperazione armonica, la collaborazione win-win, ma l’obiettivo è soprattutto l’altro. Accrescere peso, attraverso la partnership con i paesi africani, all’interno delle Nazioni Unite e delle sue organizzazione collegate – come l’Oms appunto.
Qualcosa che ha sempre contraddistinto la sfera politica dell’interesse della Cina all’Africa. Con un esempio: dopo la repressione di Piazza Tiananmen nel 1989 e le sanzioni che hanno colpito la Cina, il peso del voto africano nei comitati, come quello dei diritti umani, ha avuto un ruolo significativo per i successi sblocchi delle misure. In cambio, la Cina, un membro permanente del Consiglio di sicurezza, è stata in grado di porre il veto regolarmente alle sanzioni presentate contro gli stati africani più repressivi come lo Zimbabwe e il Sudan. Il sostegno alle voci africane ha anche avuto un ruolo nell’offensiva cinese contro l’iniziativa G4 (Giappone, Germania, India, Brasile) avviata nel 2005 per riformare il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Il G4 voleva allargare il numero dei membri permanente del Consiglio da 5 a 11, ma questa riforma avviata dal Giappone, minacciava direttamente la capacità di influenza. Inoltre, avrebbe indebolito il suo status privilegiato all’Onu.
Col sostegno delle nazioni africane, Xi Jinping ha potuto consolidare un suo lineamento strategico – noto come “fase centrale”. Ossia accrescere il proprio peso all’interno delle organizzazioni internazionali. È una volontà legata alla possibilità di trasferire a livello sovranazionale i propri interessi, per primi quelli interni collegati alle partite aperte tra le Cine fisiche: Taiwan, Hong Kong, le acque del Mar Cinese, lo Xinjiang, Macao. Tutti territori oggetto di attenzione delle agenzie internazionali che si occupano di sviluppo e diritti – argomenti che la Cina non vuole certo far trattare agli altri in casa propria.
Pechino, come in molti altri ambiti, ha sfruttato lo spazio concesso dagli Stati Uniti e dall’Occidente. L’ordine mondiale a guida occidentale è oneroso, così come onerosa è l’attività all’interno dei quelle agenzie. Servono sussidi continui e finanziamenti, ma serva anche personale tecnico costantemente presente sia in termini operativi che di rappresentanza. Insomma, oltre ai fondi – gli Stati Uniti per esempio il principale contributore dell’Oms finanziando oltre 500 milioni di dollari l’anno, la Cina ne versa 76 – servono spese vive per mantenere il personale. Molti paesi vi hanno rinunciato, molti considerano certi scatoloni multilaterali degli apparati burocratizzati e non troppo utili. Invece per la Cina globale di Xi sono un gancio.
Al XIX Congresso del Partito Comunista nel 2017, storico passaggio per la New Era di Xi, il presidente cinese ha dichiarato: “La Cina è ora diventata una grande potenza nel mondo. È tempo per noi di essere al centro della scena, sulla scena mondiale”. Sfruttando, in particolare l’aiuto dell’Africa, il suo peso economico e diplomatico, la Cina è oggi a capo di quattro delle quindici commissioni dipendenti dalle Nazioni Unite, l’unico paese membro del Consiglio di sicurezza a detenere più di una direzione.
Funzionari del partito cinese guidano la commissione che si occupa dell’aviazione civile internazionale, quella per l’alimentazione e l’agricoltura, l’altro per lo sviluppo industriale e infine quella delle telecomunicazioni internazionali. Sono tutti settori direttamente collegati agli interessi strategici cinesi, in parte collegati col mondo della Belt and Road Initiative, in parte con quello delle aziende cinesi – pensare allo sviluppo del 5G – e alla gara tecnologica.
Nel piano che la Cina vuole giocare all’interno delle istituzioni internazionali ha un posto importante la relazione con l’Africa, dunque. E nelle relazioni con l’Africa, quella con Etiopia è un primato storico e strutturale. Per esempio, Addis Abeba ospita da diversi anni il quartier generale regionale di Xinhua, uno dei principali organi dell’apparato di propaganda esterna del Partito Comunista, così come il quartier generale del Fondo di sviluppo sino-africano. E c’è anche una reciprocità, con cui Pechino ripaga lo spazio concesso. Il rafforzamento dei legami con la Repubblica popolare e l’adozione di un “modello cinese” di sviluppo hanno permesso all’Etiopia, che per lungo tempo è stato uno dei paesi più poveri del mondo, di sperimentare dal 2005 al 2017, con l’attuazione di una strategia di sviluppo industriale definita nel 2002, un tasso di crescita medio dell’8,5% all’anno. Successo su cui in futuro peserà anche la “zona economica orientale”, un’area di libero scambio attorno ad Addis Abeba, creata per facilitare produzione e commercio di prodotti tessili e nell’industria della pelle, prodotti agricoli, metallurgia, materiali da costruzione.
Su questo interesse non va sottovaluto il posizionamento geografico dell’Etiopia, hearthland del Corno d’Africa, collo di bottiglia attorno a cui si dipana la talassocrazia globale. E anche per questo la Cina ha spinto molti progetti infrastrutturali per collegarla alle aree marittime. Insomma, Pechino ha in mano quota parte dello sviluppo di Addis Abeba – sviluppo che permette agli etiopi di guadagnare vantaggi strategici continentali e regionalizzati. Per esempio, il nuovo Centro africano per il controllo delle malattie, istituito nel 2017, ha sede ad Addis Abeba e la Cina si è offerta di costruirne la sede per un importo di 80 milioni di dollari. È attraverso questo centro, in Etiopia, che anche i prodotti forniti dalla Cina nella lotta contro Covid19 in Africa. Beni di primissima necessità che devono passare per l’Etiopia prima della loro redistribuzione. Sarà dunque il governo etiope a decidere come, quando e dove distribuirli, e questo permetterà al paese la costruzione di altre relazioni durante la crisi epidemica.
Le critiche su Tedros si basano su questi presupposti. Considerazioni velenose su un personaggio da sempre vicino alla Cina (fin da quando era membro del Fronte di liberazione marxista-leninista del Tigray). Appena eletto, su approccio cinese, l’etiope deciso per esempio di appoggiare la volontà di Pechino di nominare l’ex presidente dello Zimbabwe Robert Mugabe come ambasciatore di buona volontà per l’Oms – la proposta fu poi abbandonata perché aveva incontrato molte opposizioni da parte di chi faceva notare che Mugabe era un dittatore spietato accusato dei peggiori crimini.
Un’altra delle promesse di Tedros era quella di non abbandonare mai la politica della “One China” riguardo a Taiwan, ossia non avrebbe avallato le richieste di Taipei dei suoi sponsor di elevare l’isola allo status di osservatore speciale – una forma di eccessiva indipendenza secondo Pechino – all’interno dell’organizzazione. Aspetto confermato anche durante la crisi attuale, quando l’Oms ha negato – nonostante quelle capacità di approccio dimostrate dal governo taiwanese al virus – la possibilità di accedere alle informazioni sull’epidemia. È un altro terreno di scontro tra Washington e Pechino che passa lungo quella linea di faglia intra-cinese.
Teodros ha molte volte fatto dichiarazioni a favore della Cina, per esempio nel 2018, durante una visita a Pechino, ha anche dichiarato (come riportato dal sito ufficiale dell’OMS), che la Cina, il cui “sistema sanitario è un modello”, potrebbe “migliorare la salute 60 milioni di persone in oltre sessanta paesi coinvolti nelle strade della seta ”. Ha invitato a rafforzare il “partenariato strategico tra Cina e OMS” e la cooperazione con la Belt & Road Initiative nel settore della salute. Le vie della seta della salute, di cui si è parlato molto durante l’epidemia.
Tre date, tre passaggi, per capire come il ruolo dell’Oms ha influito sulla crisi. Il 31 dicembre 2019, il Comitato di sanità pubblica cinese ha trasmesso all’Oms un’informativa su “41 casi di polmonite di origine sconosciuta”. È la linea difensiva principale di Pechino davanti a chi alza accuse di oscurantismo: abbiamo comunicato tutto, dicono i funzionari cinesi. Come già detto, il 14 gennaio 2020, la stessa commissione, ma provinciale, ha però affermato da Wuhan che non c’erano prove di trasmissione da uomo a uomo. Tutto prima di ospitare un imponente banchetto per il Capodanno – doveva essere un Guinness World Record, oltre quarantamila persone erano presenti in un’enorme tavola comune. Il 20 e 21 gennaio, un comitato di esperti dell’OMS era andato nella capitale dell’Hubei per una visita di controllo, a seguito della quale ha pubblicato un rapporto molto cauto affermando che “le fonti suggeriscono che un la trasmissione tra esseri umani avviene a Wuhan. Tuttavia, sono necessarie analisi più approfondite per comprendere l’estensione di questa trasmissione”. La delegazione ha anche osservato “la rapida identificazione cinese del virus, il suo sequenziamento genetico e la fornitura di ceppi per renderlo riconoscibile. Insomma, ha confermato il modello cinese nel contrasto alla pestilenza. Su questo gli Stati Uniti non hanno retto e colto uno spazio per l’attacco.