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La nuova crisi libica e la presenza della Turchia in Tripolitania. L’analisi di Valori

Sembrava che il Mediterraneo fosse stato ormai dimenticato, durante la guerra fredda, dove centrale era invece il Limes da Stettino a Trieste, ed era un errore tecnico, due città che peraltro citò Churchill, nel suo famosissimo discorso sulla “cortina di ferro” del 5 marzo 1946 a Fulton.

Ma fu, con ogni probabilità, George Orwell, nel 1945, in un suo saggio intitolato “You and the Atom Bomb”, a coniare l’espressione specifica “cold war”.

Anche la presenza della Eskadra navale sovietica, leggermente tardiva rispetto alla iniziale V Flotta Usa, era legata soprattutto alla protezione delle aree marittime periferiche, dalla Siria al Mediterraneo Orientale e al Dodecaneso, senza contare la pressione sovietica sulla Turchia, potente Paese Nato ai confini dell’Urss.

La crisi della “cold war” e la ormai noiosa “caduta del Muro” hanno però riportato al centro delle dottrine strategiche di molti Paesi proprio il Mare Nostrum.

Il Mediterraneo è la fine naturale del progetto cinese di Nuova Via della Seta, è poi il punto di contatto tra Europa e mondo arabo, ovvero con tutte le anime del mondo arabo, che è l’unica area, con la Cina, che ha espanso collettivamente il suo rayonnement dopo la fine della guerra fredda, è inoltre il Mediterraneo l’asse della nuova espansione israeliana, sia economica che strategica, è, ricordiamo infine, il canale inevitabile di collegamento con l’Africa, che sarà al centro delle geo-economia prossima ventura, ma già facilmente prevedibile.

Da non dimenticare nemmeno la nuova postura Usa verso il Pacifico, per accerchiare la Cina, e quindi la relativa diminuzione della pressione di Washington proprio sul Mediterraneo.

L’Italia, con la sua puerile ma irrilevante politica libica, è stata già eliminata dal novero delle vecchie e nuove potenze che ridisegnano, oggi, il Mare Nostrum.

Proprio oggi, chi dà le carte da giocare nel nostro Mare sono la Turchia, l’Algeria, l’Egitto, oltre ovviamente alla Federazione Russa e alla Cina. Via i gatti, i topi ballano.

Anche le scoperte petrolifere e gaziere del Mediterraneo Orientale cambiano molti degli attuali giochi economici e politici; e innescano nuove alleanze.

Per esempio, la Grecia ha annunciato ufficialmente e recentemente di non poter escludere l’uso della forza, in un eventuale conflitto con la Turchia, e si tratta di due Paesi Nato.

Qui, la posta in gioco sono i 24 nuovi blocchi per l’esplorazione di idrocarburi, in una nota stilata in accordo tra il governo turco e quello del Gna libico, presenti in un’area che porterebbe via alla Grecia alcune aree del Dodecaneso e chiuderebbe quasi completamente il mare di Atene, rendendolo oggetto strategico in mano ai turchi.

L’accordo tra Ankara e Tripoli, peraltro, e l’invio dei jihadisti di Idlib e di altri elementi delle FF.AA. turche, da parte della Turchia, nasce il 2 gennaio di quest’anno, quando l’Assemblea turca approva l’invio di truppe per sostenere il governo di Al Serraj, legato da una vasta rete di relazioni con la Turchia, anche tramite quelle messe a disposizione della Fratellanza Musulmana.

Certo, la Operazione “Vulcano di Rabbia” del Gna è correlata ad un forte riarmo, da parte di Russia e Siria, dello Lna di Khalifa Haftar, che, per ora, deve ridurre i danni e evitare il dilagare dei turchi-libici di Al-Serraj.

Il ritiro delle forze aeree di Haftar da al Watiya, lo vedremo meglio in seguito, era già in trattativa tra i due schieramenti, ma secondo l’emittente libica Libya24 ci sarebbe già un patto tra Erdogan e Putin per garantire solo alla Turchia la stessa base di Al-Watiya, che diventerebbe, anche con l’accordo dei russi, una base in comune tra Ankara e l’Africom Usa, mentre in cambio Mosca otterrebbe la base aerea di Qartabiyah vicino alla Sirte una base navale, sempre a Sirte, per far avere ai russi l’unica cosa che vogliono davvero dalla loro avventura libica, una base nel Mediterraneo centrale.

Si dice perfino che Erdogan abbia duramente intimato ad Haftar, tramite un “mediatore russo”, di cessare gli scontri e di ritirarsi dalle sue precedenti posizioni a sud di Tripoli.

La base ideale per la Turchia, la fine di avere una base in comune con la Marina di Al Serraj, è certamente quella di Abu Sitta. Altro che i pianti greci degli italiani, sempre in attesa di un accordo che non arriverà, seriamente, mai, con la marina tripolina.

A Abu Sitta, infatti, è alla fonda una nave militare italiana che coordina, con 70 militari, il lavoro della Guardia Costiera libica in funzione del contrasto alla migrazione illegale.

Chi sarà più ascoltato a Tripoli, il governo italiano o il nuovo imperialismo neo-ottomano dei turchi? La risposta è facilissima.

Il ripiegamento dell’Lna di Haftar sembra, soprattutto, giustificato dal dover proteggere i reparti più esposti ai droni turchi Bayrackar TB2, ma è probabile che lo Lna della Cirenaica voglia sganciarsi da un contatto diretto con il nemico per poi riorganizzarsi a sud di Tarhouna, dove operano molti consiglieri russi, emiratini e giordani.

Negli ultimi mesi, la Turchia ha portato in Libia 9600 mercenari e altri 3300 si stanno addestrando nei campi siriani.

Lo stesso esercito del Gna, che era stato ormai messo ai margini dall’avanzata delle forze dell’Lna di Khalifa Haftar, ha poi riconquistato anche Bani Walid, a sud-est di Tripoli, dove le milizie tripoline sono entrate in città senza colpo ferire, grazie alla collaborazione delle autorità locali.

Le azioni militari in loco si sono susseguite in rapida successione: il 18 maggio il Gna ha conquistato anche la base militare di Al Watiya, ne abbiamo già parlato, già precedente punto di forza, inevitabile, dell’Lna di Haftar.

In Libia, oggi, si combatte quindi una guerra per procura: Turchia e Qatar contro Egitto, Eau, Arabia Saudita, che tutto vogliono, meno che una egemonia di Ankara sulla Libia. E viceversa.

La sciocca superbia dei “grandi” europei ha permesso la crisi stabile del territorio libico, dopo una martellante e manipolatoria serie di operazioni di banale defamation contro Gheddafi e il suo maggiore alleato, l’Italia. Credete che tutta la retorica, spesso anche fondata, contro certi nostri capi del Governo fosse gratuita, qualunque errore essi avessero commesso?

C’è poi l’ipotesi, ma ormai più di una ipotesi, secondo la quale la Turchia vorrebbe costruire, nel sud della Libia, una infrastruttura militare insieme con la Nato, il che sarebbe il vero game changer di tutto l’attuale equilibrio delle forze sul territorio.

Certo, anche noi parteciperemo a questa operazione, nel quadro dell’Alleanza Atlantica, ma solo per reggere la coda alla Turchia, che non ha nessun interesse ad avere l’Italia come partner né economico né, tantomeno, militare, e certamente non in Libia.

Detto tra parentesi, il fallito incontro del Presidente Conte con Haftar e Al Serraj, poi rimasto in piedi solo con il generale dell’Lna, all’inizio del gennaio 2020, è stato un capolavoro di inettitudine, che ha posto definitivamente ai bordi la nostra diplomazia ed ha privato l’Italia, con il mito della “equipollenza” tra i due fronti, di una reale capacità di influenza.

Probabilmente, Conte voleva solo intestarsi la tregua organizzata realmente da Mosca e dalla Turchia.

E la tregua disegnata da Putin e Erdogan sia a Idlib che, più tardi, in Libia, cela un disegno strategico di notevole rilievo: la spartizione della Siria e poi della Libia in regolari e chiare zone di influenza, escludendo gli Usa e i loro alleati europei e occidentali, che non avranno spazio alcuno né in Siria né, tantomeno, in Libia.

Putin utilizzerà, ovviamente, il Lna di Haftar fino a che gli farà comodo, poi, forse, lo abbandonerà al suo destino e magari tratterà con altri nuovi e potenti nuovi player regionali africani: l’Algeria, per esempio, che si sta muovendo in direzione fortemente antiturca, o anche in Sudan, dove i turchi hanno già una base militare nell’isola di Sawakin, e infine in Marocco, dove uno dei principali partiti locali, il Partito della Giustizia e dello Sviluppo, è fortemente legato a Erdogan e al suo Akp.

In ogni caso, la Libia va pensata nel quadro di un insieme di relazioni politiche, economiche, militari che sono ormai molto ampie, e riguardano l’interconnessione tra la Libia, appunto, e tutta l’Africa, anche quella subsahariana.

Le forze di Haftar erano già andate via da Bani Walid, comunque. Sempre senza colpo ferire. La disposizione delle mine poste dall’Lna di Haftar ci fa pensare che l’accordo fosse ben raggiunto prima delle mosse militari.

Inoltre, il Gna e i turchi hanno anche ripreso la città di Tarhouna, a 95 chilometri da Tripoli, che era stata uno dei poli dell’avanzata travolgente di Haftar.

Ovvio che il Gna tripolino, ora, voglia riconquistare tutta la Sirte, ma soprattutto la città omonima, il vero snodo per il controllo delle comunicazioni e degli scambi tra Tripolitania e Cirenaica.

Intanto, i governi di Tripoli e Tobruk hanno già accettato di riprendere le loro trattativa sotto l’egida dell’Onu, soprattutto per utilizzare al meglio Irini, la missione navale, comandata dall’amm. Fabio Agostini, finalizzata al controllo dei passaggi di armi, nel Mediterraneo, verso le coste libiche.

Attività che non avrà molto successo, visto che, per esempio, sono già arrivati, sempre via mare, carichi di carri armati M60, a Misurata, provenienti dagli arsenali turchi. Si prepara la missione via terra da Tripoli verso la Sirte.

E la chiusura degli spazi di Haftar verso l’Est e la costa, fino a Tunisi. Altra carta che ormai gioca solo la Turchia.

Cosa vuole quindi Ankara, dalla Libia di Al Serraj? Intanto, un ruolo primario, economico e strategico, nella futura ricostruzione libica, poi la perforazione autonoma delle aree marittime petrolifere del Mediterraneo orientale, alle quali abbiamo già fatto riferimento, disputate tra Turchia, Grecia e Cipro.

Già da tempo il GNA ha dato il permesso, alla Turkish Petroleum Company, di fare prospezioni nella propria Zee, Zone Economica Esclusiva.

Il referente principale di Ankara è, qui, il Qatar.

Il vice-comandante delle FF.AA. turche è anche il presidente dell’Accademia Militare del Qatar, per esempio, ma nell’emirato hanno un forte ruolo anche le Forze di Sicurezza e i Servizi di Ankara, che collaborano strettamente e, talvolta, sostituiscono, le piccole ma efficienti Forze qatariote.

L’operazione turca nel Nord della Siria ha avuto un fortissimo sostegno da parte dell’Emirato, che ha letto la missione turca in Siria “Fonte di Pace” come un vasto e efficace tentativo di espansione dell’Ikhwan nell’area sunnita della Siria.

Ma in questo gioco libico è entrato subito anche Al-Sisi, che il 6 giugno scorso ha annunciato un Piano dell’Egitto, definito “iniziativa del Cairo”, finalizzata a un cessate il fuoco, a partire dall’8 giugno.

Ovvio che la iniziativa di Al Sisi mira a riprendere il controllo, dopo la evidente sconfitta di Khalifa Haftar, della situazione libica, in aperto contrasto-concorrenza con i turchi e, magari, contro le mire del Qatar e, magari, perfino degli stessi francesi, la cui Brigade Action del Servizio ha molto sostenuto, e continua a farlo, l’Lna di Haftar.

Contro gli interessi petroliferi e strategici italiani, soprattutto.

L’idea che viene sottintesa da Al Sisi, ma anche dalla Russia, è che la Libia dovrebbe essere pacificata e ricostruita seguendo le attuali faglie politico-militari, senza aspettare una impossibile, ormai, riunificazione futura.

I giovani libici che vennero addestrati dai nostri Servizi, nel 2011, in una località del Centro Italia, ripetevano spesso che, se non si fosse arrivati rapidamente a un governo forte e nazionale, le fazioni e le bande territoriali, tribali e criminali, avrebbero frazionato definitivamente il sistema politico e economico libico, senza alcuna possibilità di ritornare indietro.

Inoltre, il recentissimo piano egiziano propone la rimozione, in accordo proprio con Al Serraj, di tutti i mercenari stranieri, presenti in tutte le fazioni, poi l’elezione di un “consiglio presidenziale” eletto da tutto il popolo libico e che rappresenti equamente le tre regioni storiche, Tripolitania, Cirenaica e Fezzan, con il controllo dell’Onu e che comprenda anche eque rappresentanze di donne, giovani e anziani capi tribù.

Progetto vago, macchinoso, del tutto impraticabile oggi, ma che indica che l’Egitto vuole aspettare tempi migliori per fare quello che vuole da sempre: prendersi l’influenza sulla parte di Libia che confina proprio con l’Egitto e regolare diversamente sia la questione migratoria dei lavoratori egiziani nei pozzi di petrolio libici, che la stessa questione petrolifera, sia con Al Serraj che con chi si riprenderà la Cirenaica, se Haftar dovesse fallire ancora.

L’Italia non batte un colpo. Eppure, gli interessi petroliferi, migratori, economici, addirittura storici dovrebbero far pensare, a un qualsiasi governo di Roma, che anche l’Italia dovrebbe prender parte, e magari tanta parte, nel progetto di spartizione della Libia.

Riprendersi l’interesse nazionale italiano, piantarla di usare le nostre FF.AA. come una Croce Rossa o una Protezione Civile, evitare di credere, o di far finta di credere, alle “magnifiche sorti e progressive” delle Conferenze Internazionali, pensare poi che la Libia non è solo la memoria di un passato coloniale, che è peraltro prefascista, ma l’asse dei nostri interessi, inevitabili e colossali, nel Maghreb e in tutta l’Africa.

Quanti socialisti democratici, negli anni ’10 del ‘900, andarono volontari in Libia sull’onda del discorso pascoliano della “Grande Proletaria si è mossa!”

Come si possa risolvere, in un modo o nell’altro, la questione libica senza inserirla in un quadro più vasto, rimane, ma ormai solo per l’Italia, un mistero doloroso.

Per noi, la Libia è ovviamente il suo petrolio, dove l’Eni ha la disponibilità di sette aree di estrazione-lavorazione, ma riceviamo da Tripoli (e dalla Sirte) 7 milioni di tonnellate di petrolio, dati del 2019, ovvero il 12,1% del totale delle nostre importazioni energetiche.

Per noi, ancora, la Libia è solo il punto di partenza e di irreggimentazione, spesso criminale, di tanti migranti. E qui il tema è la reale comprensione del fenomeno.

Il Limum, Libyan-Italian Memorandum of Understanding on Migration, è stato siglato nel febbraio ultimo scorso e successivamente esteso per altri tre anni.

Limum prevede il sostegno alle autorità libiche, da parte dell’Italia, che possano bloccare i barconi e le navi che partono dalle coste libiche, per poi far ritornare i migranti nei loro rifugi sul territorio libico.

È una normativa contraria alle leggi Ue e un tentativo, ormai uno dei tanti, di far ritornare il dentifricio già uscito dentro il tubetto.

Cosa fare, allora? Creare un accordo tra tutti i Paesi Ue, che ora sono solo contenti come Pasque di rifilare tutta l’immigrazione irregolare dalla Libia all’Italia, per costituire, fuori dalla reale presenza del Gna di Al Serraj, che avrebbe molti meno problemi da risolvere, una serie di campi di controllo-selezione-permanenza, civili e organizzati, per bloccare e individuare, nei cicli temporali necessari, una parte della migrazione subsahariana.

Accordi con i Paesi dell’area non se ne fanno, sono tutti troppo contenti di liberarsi di una quota di “sovrapproduzione umana”, come la chiamava Konrad Lorenz, e non accetteranno mai di doversi tenere una “massa pericolosa” che, al massimo, faranno rendere solo come ricatto per gli occidentali che, alla fine, la riceveranno lo stesso.

Quindi, campi di controllo della migrazione fuori dalla portata del governo di Al Serraj e delle maggiori tribù che operano come intermediari della migrazione illegale.

Per difenderli, si creerà una Forza di Controllo a base Nato, ma con delle Regole d’Ingaggio che non sembrino scritte, come talvolta è accaduto, dai Puffi.

E, in ogni caso, occorrerà scegliere un campione locale che, insieme a delle Forze Armate italiane ormai uscite dal loro sogno, o incubo, internazionalista e pacifista, ci faccia fare i nostri reali interessi in Libia, che essa sia una o tante non ci importa poi, oggi, più di tanto.

Per la protezione dei nostri petroli, ovviamente, occorrerà non solo la intelligente opera dell’Eni, che sa benissimo come muoversi da sola in quei frangenti, ma anche di una unità di controllo, tra Servizi e Corpi Speciali, come peraltro prescrive già la legge 11 dicembre 2015 n. 198.

E che deve “fare politica”, ovvero scegliere, pagare, indirizzare e addestrare un gruppo abbastanza rilevante di militanti locali, da opporre, anche con le armi, agli interessi di altri Paesi, magari anche alleati, che si muovessero in quel sistema.

Tutte le forze speciali operano stabilmente in teatri di crisi, e con operazioni offensive e intrusive.

Certo, lo abbiamo fatto anche noi, ma in aree dove c’era una vasta rete di coperture Nato e di altri Paesi alleati.

Ora è tempo di correre da soli.

Lo Special Activities Division della Cia ha il suo SOG, Special Operation Group, che opera in azioni clandestine nei maggiori teatri di crisi, con una ampia regolamentazione legale.

D’altra parte, lo diceva Tocqueville, l’”America è un Paese di avvocati”.

Il Cos, Commandement des Operations Speciales francese, opera stabilmente, e soprattutto in Africa, insieme alla Brigade (o Service) Action della Dgse.

Il SA è grandemente autonomo nella raccolta di tutti i tipi di informazioni e nella scelta autonoma delle operazioni.

Lo E Squadron britannico opera con il Secret Intelligence Service ed è formato da elementi provenienti dal Sas e dallo Sbs. Insomma, occorrerà tirare fuori gli artigli, con operazioni sia segrete che palesi, per prendersi, senza troppi complimenti, la parte di Libia che ci serve per organizzare i nostri interessi. Senza troppo credere alle magnifiche sorti e progressive che Leopardi irrideva nelle parole di suo cugino Terenzio Mamiani.



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