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Del Vecchio, Mediobanca e le mire francesi. I dubbi del generale Jean

È dai vicini di casa che bisogna guardarsi in tempi di crisi. Per questo è opportuno accendere i riflettori sulle mire francesi sul settore bancario e assicurativo italiano, dice a Formiche.net il generale Carlo Jean, già consigliere militare del presidente della Repubblica, generale degli Alpini in congedo e presidente del Centro di Geopolitica economica. Grande esperto di intelligence economica (su cui ha scritto un manuale a quattro mani con l’attuale presidente della Consob, Paolo Savona), Jean non nasconde dubbi e timori sul blitz del patron di Luxottica Leonardo Del Vecchio su Mediobanca (e, di riflesso, su Generali, di cui Piazzetta Cuccia detiene il 13%).

Generale, operazione patriottica o cavallo di Troia?

Sinceramente dubito che Del Vecchio voglia aumentare la sua quota in Mediobanca dal 9,9% al 20% per puro spirito patriottico o perché è italiano. È un italiano doc, nessun dubbio, ma i suoi affari sono internazionali, ed Exilor- Luxottica è un’azienda italo-francese, inutile girarci intorno. Detto questo, non credo che si tratti di una speculazione con fini geopolitici o geoeconomici particolari.

Il Copasir ha lanciato un allarme su possibili mire francesi verso due istituti, Mediobanca e Generali, che hanno in pancia miliardi di debito pubblico italiano.

Certo, non è esagerato immaginare il rischio che asset strategici italiani come Generali finiscano sotto il controllo, seppur parziale, di attori stranieri, in questo caso francesi. Dopotutto è già successo in passato, basti ricordare come è finita la vicenda fra Banca nazionale del Lavoro e Bnp Paribas.

Quindi che fare?

Bisogna conoscere nel dettaglio gli assetti azionari e le strategie di lungo periodo. Del Vecchio vuole espandersi nei salotti buoni della finanza italiana, non è chiaro se per controllarla o semplicemente fare affari.

L’intelligence italiana ha acceso un riflettore sul sistema bancario. È quello più esposto?

Più che le banche, che sono inserite in un sistema finanziario internazionale, a correre un grosso rischio sono industrie strategiche e con know-how specializzato come la robotica e l’Intelligenza artificiale, in cui noi eccelliamo. In questi settori ci può essere in questo momento di crisi una penetrazione straniera che ci toglie il controllo di asset chiave dell’economia italiana.

Il governo ha messo in campo un nuovo golden power. Basta?

Il golden power è il più classico degli strumenti. Ma nell’intelligence economica vale una grande massima: la miglior difesa è l’attacco. E attaccare significa puntare tutto sulla crescita, andare a comprare all’estero e non viceversa. Purtroppo per farlo serve visione, e da noi sono rimasti pochi dei grandi gruppi industriali di un tempo nel settore dell’alta tecnologia, forse l’ultimo è Leonardo.

Torniamo alla Francia. In questi anni è stata fatta notare la crescente attenzione dei cugini d’Oltralpe verso il sistema industriale e finanziario italiano, corredato da più di qualche blitz.

Ma questa non è una novità. Storicamente, fin dall’Unità d’Italia, il capitalismo francese e tedesco hanno fatto man bassa di acquisti nel nostro Paese. Basti pensare alla Banca commerciale italiana, che di fatto era una banca d’affari tedesca inserita nel tessuto italiano. O ancora agli investimenti di Berlino nelle nostre linee ferroviarie, un tempo. E nella componentistica meccanica, oggi. L’Italia non ha più una sua politica industriale. Non è il Paese degli anni ’50, e neanche degli anni’30, quando l’Iri ebbe almeno il merito di portare verso l’alto il sistema.

Intanto il governo valuta una cordata per riprendere Borsa Italiana dalle mani del London Stock Exchange (Lse). Alla porta, anche qui, una realtà francese: Euronext.

La Borsa dovrebbe essere in mani italiane, su questo non c’è dubbio. Ma, ripeto, il cuore del problema oggi non è tanto finanziario quanto economico. Senza crescita tutta l’economia è debole, e i nostri gioielli finiscono in vendita. Se i soldi che abbiamo dall’Ue li spendiamo tutti in reddito di cittadinanza e niente in sviluppo, la direzione è già segnata.

Jean, non le sembra che alzare l’asticella nei confronti della concorrenza europea sia un po’ ai limiti di quanto previsto dai Trattati?

A mio avviso no. La vera concorrenza all’economia italiana non è extraeuropea, ma all’interno dell’Europa. La vicinanza fisica facilita la competizione industriale. E la prossimità territoriale spesso si traduce negli assetti manageriali delle grandi realtà industriali e finanziarie italiane.

Eppure in questi mesi si è parlato molto di investimenti extraeuropei. Specialmente quelli dalla Cina.

Solo nelle fantasie di qualcuno al governo la Cina può essere un tassello cruciale per l’economia italiana. Il nostro export verso la Cina è diminuito, e al confronto con gli Stati Uniti è semplicemente ridicolo. Nel 2019 abbiamo esportato negli Usa 45 miliardi di euro, in Cina 12. Quella della Cina che ci salverà è una favola che dimostra incultura industriale, commerciale e politica.

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