Skip to main content

DISPONIBILI GLI ULTIMI NUMERI DELLE NOSTRE RIVISTE.

 

ultima rivista formiche
ultima rivista airpress

Dal Pacifico al Medio Oriente, se l’espansione cinese è un boomerang. Parla Luttwak

Le ambizioni hanno un prezzo. Lo sta scoprendo la Cina, dice Edward Luttwak, politologo e stratega americano con un passato al Pentagono, autore di decine di libri diventati capisaldi della dottrina militare americana. Luttwak è ospite dell’ultimo appuntamento del ciclo di incontri “China in the Middle East-Mediterranean (Mid-Med)” (di cui Formiche è partner esclusivo) organizzati dalla Tel Aviv University e da ChinaMed, un progetto del Center for Mediterranean Area Studies dell’Università di Pechino e del Torino World Affairs Institute, parte del TOChina Hub sviluppato dall’Università di Torino.

Luttwak conosce bene la Cina, che ha visitato con cadenza annuale dal lontano 1976, quando alla Casa Bianca sedeva il presidente Gerald Ford e al Dipartimento di Stato un certo Henry Kissinger, mentre lui era “un esperto di carri armati e tecnologia militare”. Nei suoi innumerevoli viaggi da stratega del governo americano ha visto con i suoi occhi la Cina di Mao Tse-Tung, quella di Deng, oggi quella di Xi Jinping, che nonostante certe sue (note) sferzate un po’ tranchant lo accoglie ogni anno con tutti gli onori, “l’esercito vuole sempre pagarmi le spese”, racconta lui, di fronte a una platea (telematica) di colleghi che hanno poco da invidiargli in tema di conoscenza della Cina e dei segreti della Città Proibita.

A dialogare con lui, Enrico Fardella, professore associato del dipartimento di storia dell’Università di Pechino, il professore Ori Sela, direttore del dipartimento di East Asian Studies della Tel Aviv University, e il professor Brandon Friedman, director for research del Moshe Dayan Center della Tel Aviv University.

Dal Medio Oriente all’“Estero vicino”, i piani di espansione del governo cinese stanno incontrando più di un ostacolo sul cammino. Prova ne è la nuova Via della Seta (Belt and Road Initiative), il mastodontico piano infrastrutturale per collegare via terra e via mare Eurasia, Africa e Oceania di cui Xi ha fatto un vessillo e che pure non procede spedita come dalla tabella di marcia. La crisi del Covid-19 accelera questo processo, ma non è che una delle concause.

“La strategia è sempre più forte della politica. Avevo previsto che i cinesi non sarebbero stati in grado di crescere economicamente, spendere, investire in infrastrutture, senza provocare reazioni dai loro vicini e, in prospettiva, la nascita di una coalizione anti-cinese”, dice Luttwak.

A dispetto delle attese, i problemi sono nati molto più con i vicini di casa che in Europa, Medio Oriente, Africa. Nella Mezza Luna, ad esempio, Pechino vanta ormai una presenza capillare, anche fra alleati storici degli Stati Uniti, come Israele. Luttwak parla di “relazione consolidata” con Tel Aviv. Ori Sela della Tel Aviv University ha i suoi dubbi, ma riconosce che “sono stati commessi errori” nella gestione della tecnologia militare israeliana, solo dal 2006 “Israele è riuscita a stabilire un meccanismo per regolamentare la sua vendita di armi”.

L’avanzata del Dragone in Medio Oriente è direttamente proporzionale al ritiro strategico degli Usa, spiega Luttwak. “Prima di Trump, a prescindere da Trump, gli Usa si stavano togliendo dal Medio Oriente. Il nation-building, lì, è fallito. L’impegno militare nel mondo islamico è costoso, difficile, fa perdere vite umane ma soprattutto è futile, gli americani finalmente lo hanno capito, è un capitolo chiuso”.

Diverso è il caso dei Paesi confinanti l’ex Celeste impero, che mal sopportano i piani espansionistici di Pechino e hanno iniziato a rispondere, colpo su colpo, dice lo stratega. Succede nel Sud-Est asiatico, ma anche nel Pacifico, che non a caso è in questi mesi entrato nell’agenda di organizzazioni regionali solitamente estranee a quell’area come la Nato.

Gli episodi di tensione si stanno moltiplicando. “Di recente la Cina ha costruito una piattaforma di estrazione di petrolio in una zona confinante il Vietnam che il governo di Hanoi considerava acque territoriali. I vietnamiti hanno inviato le loro piccole navi intorno alla piattaforma, la Cina ha risposto con navi più grandi. Il governo vietnamita ha allora disposto di attaccare qualsiasi imbarcazione cinese nelle acque territoriali vietnamite. Alla fine la Cina ha ritirato la piattaforma”, spiega l’americano. “Non tutto si vince come una partita di scacchi – continua – non puoi affondare un peschereccio vietnamita e aspettarti che l’Indonesia rimanga lì a guardare inerte”.

L’effetto collaterale dell’espansione cinese è tanto più evidente nel Pacifico. Dal Giappone all’Australia e l’India, “queste potenze di mare stanno facendo quello che si fa quando una potenza di terra si espande troppo: ricordarle che è una potenza di terra”. Come abbassare le tensioni? C’è una sola via, secondo Luttwak. “La Cina deve tornare a una crescita pacifica, quella annunciata ad Hainan nel lontano del 2004. Per citare un proverbio, deve ricatturare i cavalli e riportarli nella stalla”.

Qual è invece la strategia degli Usa per contenere la crescita cinese? Difficile rispondere, ammette Luttwak, perché il dossier cinese è “uno dei pochi temi bipartisan” che unisce repubblicani e democratici, trumpiani ed anti-trumpiani, in un intrigo non facile da districare.

L’impressione è che una parte dell’escalation innescata dall’attuale amministrazione americana non sia estranea al fattore delle elezioni presidenziali, fa notare il professor Fardella, “mi sembra che privi l’approccio degli Stati Uniti alla Cina di una certa flessibilità”.

Non ne è convinto Luttwak. Anzi, dice lui, l’approccio di Trump alla Cina è fin troppo morbido per i democratici. Basta ascoltare Nancy Pelosi: “Lui vuole negoziare, prima spingere, poi allentare e poi di nuovo spingere. Lei è assiomatica: vuole vedere il Partito comunista cinese (Pcc) completamente distrutto”. Tra le due linee, se in America sta prevalendo la linea Pelosi si deve “all’opinione pubblica americana, che riflette una crescente attitudine anti-cinese, non nel senso di contraria ai cinesi, anzi, ma contraria al governo cinese”.

×

Iscriviti alla newsletter