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Perché l’Europa ha bisogno degli Usa (e viceversa). La minaccia cinese

Neanche un comunicato congiunto. Così si è concluso il tanto atteso tele-vertice Ue-Cina di questo lunedì. In un’ora di conversazione, i presidenti di Consiglio europeo e Commissione Charles Michel e Ursula von der Leyen hanno discusso con il premier cinese Li Keqiang e il presidente Xi Jinping, o almeno ci hanno provato.

Tanti i punti di frizione che restano fra Bruxelles e Pechino, tutti emersi questo lunedì in una conferenza stampa di ghiaccio in cui la numero uno della Commissione, oltre a redarguire (moderatamente) la Città Proibita sulle violazioni dei diritti umani in Xijniang e a Hong Kong, ha puntato il dito contro il governo cinese per una serie di “attacchi cyber” contro strutture sanitarie e ospedaliere europee.

Né si respira un’aria migliore sul tema clou della riunione web, cioè gli investimenti diretti esteri, oggetto del nuovo Libro bianco pubblicato dalla Commissione il 17 giugno che propone una stretta sullo screening chiamando in causa neanche troppo velatamente il dumping cinese.

Quello fra Cina e Ue è un dialogo “frustrante”, così l’ha definito Steven Erlanger sul New York Times. A riprova della confusione che regna sovrana a Bruxelles resta una frase pronunciata dall’Alto rappresentante per la politica estera dell’Ue Josep Borrell in un seminario del Brussels Forum del German Marshall Fund. L’ex ministro degli Esteri spagnolo, vicepresidente della Commissione, ha definito la Cina al contempo “un partner”, “un competitor”, ma anche “un rivale”.

Frustrante o meno, è pur sempre un dialogo. È questa la tesi che si fa spazio in un dibattito che ha preso il largo fra esperti dei think tank americani. Un canale diretto fra i due blocchi, alle dovute condizioni, può trasformarsi in un’opportunità anche per gli Stati Uniti. “Mentre Washington intensifica il suo focus sulla Cina, chiunque sia preoccupato degli sforzi di Pechino per minare l’unità fra Stati membri dell’Ue – sia rompendo il G7 sulla Belt and Road quando l’ha firmata l’Italia, sia attraverso la recente diplomazia degli aiuti per il coronavirus – bisogna riconoscere che Bruxelles si è posta come forza trainante per ostacolare questi sforzi”, scrive in un fondo sull’Atlantic Council di Washington Dc Julia Friedlander, vicedirettrice del Global Business and Economic Program con un passato al Tesoro Usa e, da responsabile per gli Affari europei tra il 2017 e il 2019, al National Security Council.

“L’Europa è pronta a passare all’azione verso la Cina – scrive l’esperta. Ora la palla passa agli Stati Uniti. Il faticoso ma continuo sforzo di mediazione dell’Ue non deve essere ostacolato, ma cavalcato dall’amministrazione Trump, con un’iniziativa speculare. “Ora formalizzare un dialogo Usa-Ue potrebbe essere l’opportunità di un grande gesto transatlantico su uno dei principali (e bipartisan) temi che preoccupano Washington”.

C’è una categoria, spiega la Friedlander alla luce della sua esperienza, che troppo spesso viene sottovalutata. Si tratta dei tecnici sparsi per i meandri della Commissione Ue che si occupano di finanza, commercio, economia. Loro, i funzionari “immersi nella (decisamente non-sexy) politica regolamentare”, sanno più di ogni altro sanno quanto sia “molto più facile strappare un accordo con Bruxelles invece che ventisette diversi accordi con gli Stati membri”.

Ue e Stati Uniti, è la tesi dell’ex funzionaria, possono completare le rispettive lacune e sviluppare insieme una strategia vincente di contenimento della Cina. La prima ha, appunto, dimestichezza con la parte regolamentare, ma è più carente (per costituzione) su quella strategica, anche perché “la politica estera dell’Ue è un work in progress”. Gli Usa rischiano invece a volte di “twittare grandi parole, senza dar loro seguito”.

“Negli Stati Uniti c’è un consenso bipartisan sulla linea dura con la Cina, ma con alcune differenze nell’interazione con l’Europa – spiega a Formiche.net Giovanna De Maio, visiting fellow della Brookings Institution. Molto dipenderà dalle presidenziali in autunno. “Un eventuale secondo mandato di Trump continuerebbe il confronto con i mezzi della guerra doganale che abbiamo già visto sia contro la Cina stessa, sia contro i beni europei per convincere Bruxelles a seguire la leadership americana in un confronto aspro con Pechino. Un’amministrazione Biden sarebbe molto più incline a uno sforzo collettivo Stati Uniti-Europa per una linea comune sulle questioni non soltanto economiche ma anche politiche come la difesa dei diritti umani e cercherebbe la sponda per lavorare su temi globali come le pandemie e il cambiamento climatico”.

Uno spiraglio per una strategia europea c’è anche secondo Dario Cristiani, fellow Iai (Istituto affari internazionali)/Gmf (German Marshall fund). “Ricordiamo che, nelle prime settimane della pandemia, in tanti erano pronti a recitare il de profundis di Bruxelles mentre i Paesi europei si bloccavano le esportazioni di materiale medico a vicenda, e invece quattro mesi dopo vediamo un’Europa che, nonostante le inevitabili differenze in un blocco geopolitico a 27, sulla Cina sta iniziando a ragionare nello stesso modo”, dice a Formiche.net.

A cosa si deve la svolta? “La narrazione aggressiva sui meriti della diplomazia degli aiuti cinesi ha rappresentato un momento decisivo, ma anche le flessione dei muscoli cinesi con India, Vietnam, Hong Kong, ha reso chiara l’idea che – probabilmente – la “peaceful rise” di Pechino si è fermata nel 2013, e con Xi la musica è cambiata”.

Per Cristiani “la pandemia ha reso l’Europa economicamente più vulnerabile ma per questo più attenta ai dettagli, in tal senso – sebbene l’unità geopolitica latiti – la sua natura di “potenza tecnocratico/regolatrice” può aiutare nel gestire il rapporto con un paese come la Cina che, nell’utilizzo dei dettagli e dei cavilli per bloccare l’accesso al suo mercato o manipolare le relazioni economiche e commerciali con gli altri paesi, ne ha fatto quasi un’arte”.

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