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Fine degli Stati Generali. Adesso viene il bello

Non credo che il governo abbia comunicato nella maniera più efficace l’idea degli Stati Generali dell’Economia, tenutisi a Villa Pamphili nei giorni scorsi. Eppure era buona: riunire intorno ad un tavolo i principali attori economici, sociali e politici – italiani ed europei – per riflettere sul futuro dell’economia italiana. Perché, visto che la maggior parte delle risorse arriveranno dalla UE, mi pare il minimo confrontarsi anche con i suoi rappresentanti istituzionali.

Non che ci fosse molto su cui riflettere, per la verità. Più che altro servirebbe il coraggio politico di affrontare i nodi irrisolti del nostro ritardo strutturale nei confronti delle altre economie europee e mondiali. Peraltro già ampiamente messi in evidenza dalle Policy Recommendations del Consiglio Europeo dell’anno scorso, che avremmo dovuto semplicemente incollare nel Documento di Economia e Finanza; ma l’abbiamo già scritto e non vogliamo ripeterci, anche se magari repetita juvant, visto che sono ancora ad oggi indicazioni completamente inascoltate.

Si tratta di ridurre il divario di produttività del paese attraverso moderne ed efficienti infrastrutture di trasporto, di comunicazione (digitale), sociali e culturali; di accrescere la resilienza delle comunità locali agli shock, sia in termini di tutela attiva del territorio, sia di gestione delle emergenze sanitarie e di sviluppo di reti locali virtuose a fini di promozione sociale ed economica; migliorare l’efficienza della pubblica amministrazione in un’ottica di raggiungimento dei risultati, non di timbratura del cartellino (vediamo se l’esperienza dello smart working saprà passare dallo stadio emergenziale ad uno strutturale più ampio ed organizzato); crescita del capitale umano, i tutte le sue fasi, dagli asili nido all’Università ed anche durante la vita professionale.

E poi privilegiare gl’investimenti (e per loro tramite l’occupazione), piuttosto che il sostegno al reddito ed ai consumi. In questa ottica, la riduzione delle aliquote IVA, pur presentando un certo fascino di fronte al grande pubblico, rischia di essere un boomerang in termini di spesa: difficilmente i prezzi si modificheranno al ribasso in reazione all’abbassamento dell’Iva… più facile che aumentino i margini di profitto. Il che naturalmente va benissimo… basta avere un’idea precisa di quali nessi causali e quali categorie distributive vanno privilegiate per consolidare la ripartenza.

Così come, in un’ottica emergenziale, è ovvio e doveroso puntare sugli ammortizzatori sociali. Che però non possono essere utilizzati all’infinito; non si assicura la ripresa con i sussidi, che devono essere solo una manovra tampone per fronteggiare la carenza di liquidità. Occorre far ripartire il lavoro: promuovendo una transizione delle produzioni italiane verso la frontiera delle possibilità produttive, verso l’innovazione; ed allo stesso tempo assicurare appunto investimenti nei settori ad alta intensità di lavoro (anche per questo le infrastrutture sono decisive).

Per tutto questo sono centrali gl’investimenti. Sia quelli pubblici, sapientemente orientati verso settori strategici, sia quelli privati. Un ruolo chiave, a questo proposito, è quello della classe imprenditoriale. Non delle corporazioni in cerca di briciole (più o meno grosse) di sovvenzione pubblica per tenere in vita attività ormai fuori dal mercato, ma per agevolare la trasformazione ed il riposizionamento strategico ed organizzativo di imprese con buone prospettive di crescita.

E poi esiste un fattore-tempo. A fronte di una perdita di oltre il 10% del Pil, si preannunciano in arrivo dall’Europa risorse per oltre il 10% del Pil. Ma se queste saranno disponibili solo a partire dal prossimo anno, si tratta di capire come far fronte alle emergenze finanziarie dell’autunno, che altrimenti si preannuncia parecchio caldo. Per questa ragione (anche, non solo) non possiamo rinunciare ai soldi del Mes: che sono consistenti, a costo zero e disponibili immediatamente.

Infine, c’è un problema che nessuno osa affrontare, tanto fa paura: il debito pubblico. Che quest’anno salirà ad oltre il 150% del PIL. Fino a quando la Bce continuerà ad acquistare a man bassa e senza la regola della Capital Key i titoli emessi dal Tesoro italiano, questo non rappresenta un problema. Ma appena l’intervento espansivo cesserà dovremo affrontare un rapporto debito/Pil da mettere i brividi.

Anche per questo serve un confronto con l’Unione Europea: per assicurare che la maggior parte delle risorse che verranno rese disponibili sul Next Generation EU provengano dalle risorse proprie, piuttosto che dai contributi nazionali. Insomma, che si finanzi da sé, non con risorse che andrebbero a peggiorare i già critici conti pubblici italiani.

Vedremo al prossimo appuntamento di luglio se l’Europa sarà in grado di fornire quella risposta solidale che diventa ogni giorno più necessaria. Come Italia, non abbiamo alternative: e il prezzo della solidarietà europea è la responsabilità italiana nella gestione delle risorse.



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