Non è roba da poco capire cosa ci sia sotto la decisione del presidente Donald Trump di ridurre la presenza militare americana in Germania, ritirando 9.500 uomini entro settembre. La fitta cortina fumogena che avvolge la politica statunitense in questi giorni di violente contestazioni di piazza e di stolida retorica anti-Trump da parte dei media a trazione “democratica” europei, infatti, rende difficile capire le vere ragioni strategiche e politiche del provvedimento.
Potrebbe trattarsi di una banale mossa elettorale, da mettere in sistema con la pace coi talebani in Afghanistan e col ritiro (a metà) dalla Siria dell’estate scorsa, volta a confermare in vista del prossimo appuntamento elettorale l’impegno preso da Trump prima della sua elezione circa un ridimensionamento del ruolo (e degli oneri) di poliziotto globale di cui gli Usa si erano rivestiti dalla fine della Guerra fredda. Più difficile, anche se non escludibile a priori, che si possa trattare di un segnale a una certa “top class” militare, consapevole del ruolo fondamentale della presenza Usa in Germania, ma colpevole con alcuni dei più autorevoli generali in pensione di aver preso una posizione critica nei suoi confronti, aggiungendo la loro voce a quella dell’entourage obamian-clintoniano.
Quest’ultimo è infatti preoccupato da ciò che potrebbe emergere dalle audizioni presso la commissione giustizia del Senato della prossima settimana circa le prove di un vero e proprio tentativo di golpe ai danni di Trump condotto con ogni mezzo soprattutto, ma non solo, nell’intervallo tra la sua elezione e l’insediamento di quattro anni fa. E questo sarebbe un grosso problema per il candidato democratico Joe Biden, che non brilla di luce propria, giustificando un inedito venir meno del tradizionale supporto (almeno formale) che tutti i “past Presidents” hanno sempre assicurato a quello in carica.
Potrebbe poi trattarsi di un provvedimento mirato a “punire” l’amministrazione tedesca, colpevole di un eccessivo smarcamento dalla politica di Trump, come nel caso del rifiuto a partecipare al G7 da parte di Angela Merkel; ma probabilmente sarebbe un’ingenuità ritenere che una riduzione delle Forze statunitensi in Germania venga percepita da questa come un problema. Nonostante la retorica obbligatoria circa la difesa della democrazia e della libertà del Paese in questo dopoguerra, infatti, la sottrazione di importanti spazi territoriali nazionali per le esigenze delle truppe a stelle e strisce rappresenta un gravame sempre più indigesto per strati sempre maggiori della società tedesca, soprattutto da quando con la completa “digestione” della riunificazione nazionale Berlino ha dimostrato di saper badare autonomamente ai fatti suoi, anche grazie ad un apparato militare non trascurabile.
Volendo però rimanere sul concreto della postura militare, un ritiro di questa portata ha certamente significati più concreti. Dato per scontato che difficilmente gli Usa rinunceranno a una presenza globale che assicura loro alte rendite economiche e strategiche, il tutto sta a vedere che fine faranno quegli uomini qualora non ci si limiti a ritirarli negli States. Le ipotesi più razionali potrebbero essere quelle relative a un rischieramento finalizzato a dare soddisfazione alle paturnie anti-russe dei polacco-baltici o, al contrario, a uno spostamento del baricentro nel Mediterraneo, dove si stanno ridisegnando i ruoli di molti dei protagonisti delle frizioni degli ultimi lustri.
In questo secondo caso, ovviamente, l’Italia avrebbe la soddisfazione di vedere finalmente corrisposte le sue chiamate a una maggiore attenzione sul fronte sud, snobbato dall’Unione europea e dalla Nato stessa, più concentrate a fronteggiare supposte minacce russe al centro Europa, e per questo impegnate a fondo in Ucraina.
Ma non sarebbero certamente le nostre preoccupazioni il motivo di una tale mossa, quanto piuttosto il nuovo assetto che potrebbe avere una Libia molto più “turca” e legata ai fratelli musulmani che nel passato, e un Medio Oriente nel quale la ribadita volontà di Israele di annessione del West Bank non contribuirebbe certamente alla pacificazione dell’area più turbolenta del globo. Anche su questa questione l’attivissima Turchia non ha fatto mancare la sua voce, con critiche alla mossa di Netanyahu – entusiasticamente fatta propria invece da Trump – che confermano un’ambizione a potenza regionale da parte di Ankara che non può non impensierire circa un cambio radicale della natura dell’Alleanza Atlantica, da organizzazione a stretta egida statunitense e anglosassone, a struttura militare sempre più multipolare.
Resta il problema pratico e tutt’altro che trascurabile dello spostamento di un numero così considerevole di militari per il quale sono necessarie infrastrutture e una rete di accordi diplomatici con gli Stati interessati che non sono affare da poco. Ma l’Europa offre altre soluzioni al problema alle quali l’Italia stessa e i Balcani non sono estranei, senza tenere conto di possibili rischieramenti in nord Africa, auspicati dai tempi della creazione di AfriCom, ma mai effettuati anche per l’equilibrio instabile dell’area.
In ogni caso, val la pena di osservare che una forte presenza di truppe in centro Europa rispondeva ad una postura tipica dello scorcio finale del Ventesimo secolo, quando le possibilità di rischieramenti veloci di ingenti quantità di truppe erano resi più difficoltosi da una disponibilità di mezzi aerei, da parte americana, inferiore all’attuale. Inoltre, quando tale postura era stata impostata non era ancora stata inaugurata quella che Mike Pompeo ha definito una nuova forma di deterrenza, vale a dire l’uso “preventivo” dei droni per colpire ovunque e chiunque lo renda necessario in nome degli interessi statunitensi. Concepita e messa a punto in Afghanistan, in Iraq e nel Corno d’Africa, tale metodologia operativa si è imposta all’attenzione generale con l’uccisione del generale Qassem Suleimani a Baghdad quale nuovo strumento che consente interventi mirati e devastanti “in periferia”, dando eventualmente modo e tempo per l’adozione di altri provvedimenti, come l’afflusso di unità di terra con riferimento all’aspetto specifico.
Insomma, potrebbe trattarsi anche di un semplice ribilanciamento qualitativo delle forze, senza far mancare una capacità di intervento globale alla quale gli Stati Uniti non sembrano ancora disposti a rinunciare.