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Guerra dei microchip. Così il Congresso Usa rilancia la politica industriale

Prosegue a distanza la saga della “guerra digitale” tra Stati Uniti e Cina. I fronti caldi ormai sono noti. Il bando imposto su Huawei, la battaglia per assicurarsi le supply chain dei semiconduttori, con la pressione sull’azienda taiwanese Tsmc e le continue schermaglie sul suolo europeo per ostacolare la diffusione delle tecnologie cinesi del 5G. Se sul fronte del mercato globale Washington e Pechino sono fortemente all’attacco, con mosse e contromosse per “soffocare” le catene del valore delle componenti più essenziali, sul piano interno vengono approntate nuove strategie per stimolare la corsa frenetica alla supremazia tecnologica.

Negli Usa, in particolare, si sta facendo sempre più spazio nel dibattito tra i policymakers la necessità di promuovere una politica industriale abbastanza forte e coerente, nel lungo termine, da sfidare la pianificazione cinese, come nel caso di Made in China 2025 e la Belt and Road Initiative. Anche se questo terreno rimane questione spinosa al Congresso (dove i democratici nutrono dubbi sui sussidi di Stato mentre i repubblicani rimangono contrari all’interferenza nel libero mercato), alcune iniziative sembrano suggerire il contrario.

Dapprima l’idea di David McCormick, ceo di Bridgewater, per una “strategia di sicurezza economica” che possa puntellare il primato tecnologico americano. Poi ha fatto notizia l’annuncio della prossima apertura di uno stabilimento di Tsmc in Arizona (si parla del 2024 per l’inizio della produzione di microchip).

Un investimento da 12 miliardi di dollari per assicurare una supply chain all’interno del perimetro di sicurezza americano e che in futuro gli Stati Uniti possano diventare “la località preferita per la manifattura avanzata, domestica e straniera, dei produttori di semiconduttori dal momento che quest’ultimi diventeranno sempre più cruciali per il 5G e gli sviluppi nell’intelligenza artificiale e nel quantum computing”, hanno commentato Paul Triolo e Kevin Allison, analisti di EurasiaGroup.

Questi sono solo alcuni dei settori strategici ai quali il Congresso vorrebbe dedicare ulteriori fondi per rilanciare la frontiera scientifica e tecnologica, come proposto con l’Endless Frontier Act dieci giorni fa, come raccontato su Formiche.net. Infine, la Semiconductor Industry Association nelle settimane scorse ha annunciato di aver messo a punto una proposta al governo da 37 miliardi di dollari, inclusi sussidi per la costruzione di nuovi stabilimenti per la produzione di chip, aiuti ai singoli stati per attrarre investimenti nel settore e una maggior spesa in R&D.

Tuttavia, il contesto incandescente ha turbato non di poco gli addetti ai lavori. Nella business community si è fatta largo la preoccupazione che le crescenti tensioni con Pechino possano mettere a rischio la tenuta dell’intero comparto. Come riportato nella giornata di ieri, molte aziende americane temono che l’offensiva dell’amministrazione su Huawei possa innescare una reazione a catena. Sia per le aziende domestiche che per quelle oltreoceano.

Tsmc ha già annunciato di poter fare a meno del colosso di Shenzen, aprendosi ad un mercato molto dinamico, soprattutto in Asia, e consolidando gli investimenti e ricerca sul suolo nazionale con l’aiuto del governo di Taipei. Come ricorda il Financial Times, l’azienda taiwanese rimane centrale per far quadrare l’equazione, dal momento che solo il 12% della manifattura globale di microchip avviene sul suolo americano e molte aziende statunitensi (su tutte Apple e Intel) rimangono legate a Tsmc per la fabbricazione dei loro design.

“In aggiunta a Samsung, la terza produttrice al mondo, queste dinamiche danno l’idea di come questa inversione verso l’Asia faccia sudare i corporate risk manager nell’industria dei chip”. La questione è intricata: fidarsi completamente dell’azienda taiwanese? E in più, i rischi geopolitici valgono la candela? L’isola rimane vulnerabile alla pressione di Pechino, sia essa commerciale o militare.

E seppur l’accordo di Tsmc sia stato accolto con grande soddisfazione dall’amministrazione come futuro asset nella competizione globale, vi sono alcuni dubbi a riguardo: “Se e quando lo stabilimento verrà ultimato, sarà in grado di processare soltanto un quarto dei microchip prodotti dai più grandi impianti di semiconduttori di Tmsc, ammontando dunque solo al 3% delle sue capacità correnti a Taiwan”, ha commentato Steve Blank su War on the Rocks.

“Ci sono quattro siti, ognuno dei quali conta sei o sette fonderie che producono 13 milioni di wafer – sottili fette di semiconduttori – all’anno. Confrontate questi numeri a quelli che intendono processare negli Stati Uniti nel 2024. Se gli Usa dovessero perdere Tsmc ai danni della Cina, un solo nuovo impianto non farebbe la differenza in termini di capacità”.

Probabilmente è per scongiurare la dipendenza da questi scenari che si inserisce la volontà di costruire un’industria nazionale maggiormente slegata da dinamiche geopolitiche. Mercoledì un gruppo bipartisan al Congresso ha presentato una proposta di legge denominata Creating Helpful Incentives to Produce Semiconductors for America Act (Chips for America Act). “Sforzi che riflettono un cambio di opinione a Washington dal momento che i legislatori guardano ad un ruolo più espansivo del governo nei mercati per aiutare a competere le imprese americane”, ha commentato il New York Times.

A differenza del passato, quando i sussidi governativi erano focalizzati sulla ricerca, l’ultima proposta vorrebbe enfatizzare maggiormente la produzione domestica. Tre i punti principali: prevede un 40% di crediti d’imposta per materiali ed equipaggiamento, 10 miliardi di fondi per andare incontro agli incentivi dei singoli stati (incoraggiando così l’apertura di nuovi stabilimenti) e 12 miliardi di dollari destinati in 10 anni a ricerca e sviluppo.

“Dal momento che il Partito Comunista Cinese punta a dominare l’intera supply chain dei semiconduttori, è cruciale per noi rinvestire nella nostra industria nazionale”, ha dichiarato il senatore repubblicano Michael McCaul, uno dei promotori della legge. Soprattutto dal momento che Pechino non starà a guardare. Nei prossimi cinque anni, la Cina punta ad investire 1,4 trilioni di dollari per la sovranità digitale, nell’intelligenza artificiale, nei data center e nelle telecomunicazioni.

Per capire la portata della legge, va contestualizzata nell’attuale panorama tecnologico americano. Negli Stati Uniti sono presenti stabilimenti in 18 stati, mentre il settore dei semiconduttori rappresenta il quinto più importante per l’export americano. Le compagnie americane che si occupano del design dei microchip hanno speso nel 2019 (da sole) 40 miliardi di dollari in R&D. Inoltre, la costruzione di un nuovo sito di produzione avanzato richiederebbe, secondo i calcoli del Wsj, quasi 10 miliardi. Dunque, dal momento che gli Usa sperano di attrarre aziende da regioni dalle quali intendono rilocalizzare la produzione (Corea del Sud, Taiwan e Cina), non è detto che questi incentivi possano compensare futuri costi di gestione e regolamentazione.

Dunque, è del tutto plausibile che a Capitol Hill abbia prevalso l’attività di lobbying della SIA in favore di una maggiore indipendenza specialmente per le applicazioni militari e le crescenti tensioni con la Cina. “Altri paesi hanno messo in atto importanti incentivi nel settore, mentre la crescita produttiva americana rincorre quella di altre nazioni proprio per una grave lacuna di sussidi federali” ha dichiarato in un nota a margine dell’introduzione della legge John Neuffer, Presidente e ceo dell’associazione americana, convinto che sia ormai giunto il tempo per “gettarsi nella mischia e fare del nostro paese un posto maggiormente competitivo per produrre questa tecnologia strategica così importante”.

Le esigenze di Apple e del Pentagono, per citare solo alcuni dei più importanti clienti dell’industria dei microchip, risulteranno decisive nell’attrarre investimenti negli USA. Rimane tuttavia la questione di quanto sarà possibile mantenere una strategia industriale coerente, non soltanto in risposta alle mosse di Pechino.

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