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Guerra di microchip. Così gli Usa provano il sorpasso sulla Cina

Di Alberto Prina Cerai

L’industria americana dei semiconduttori ha recentemente proposto di rilanciare gli investimenti del governo federale. Un settore, quello dei microchip, di fondamentale importanza strategica nella corsa alla supremazia tecnologica in cui gli Stati Uniti detengono un significativo vantaggio nei confronti della Cina e di altri potenziali competitors.

La proposta, infatti, va inserita nel più ampio contesto della crisi sanitaria, che ha accelerato una tendenza al disaccoppiamento delle principali catene del valore globali. Una reazione spesso istintiva, ma ora divenuta sempre più figlia di una percezione consolidata, da parte dei policymakers americani, dei rischi connessi all’iper-globalizzazione.

Da qui si è fatto avanti un discorso sempre più condiviso sulla necessità di una politica industriale più strutturata e di un cambio di paradigma nella sicurezza nazionale che possano affrontare con nuovi strumenti e consapevolezza la sfida lanciata dalla Cina. Quanto più nel settore tecnologico, dove la dipendenza delle industrie americane in alcuni segmenti manifatturieri (in particolare Taiwan, Corea del Sud e naturalmente in Cina) è sempre più percepita come un rischio, dal momento che spesso queste tecnologie hanno implicazioni militari.

Riportare parte, se non tutta, la produzione in America risponderebbe alle esigenze di rafforzare il perimetro della sicurezza oltre che di stimolare ulteriormente ricerca e sviluppo. “Rappresenterebbe una riconfigurazione sostanziale dell’intera industria” ha commentato Scott Kennedy, senior adviser presso il Center for Strategic and International Studies presso l’emittente CNN Business. “I semiconduttori e il settore dell’informatica e delle comunicazioni sono le industrie più globalizzate al mondo”.

Che parte di questa realtà sia dettata dall’escalation con la Cina, è piuttosto scontato. In un’intervista a Fox News, Donald Trump ha rilanciato la necessità di un vero e proprio decoupling dalla tecnologia cinese. In questo modo, verrebbero galvanizzate nuove attività di produzione negli Stati Uniti, a condizione che il governo federale getti le basi e detti le condizioni per ricostruire una manifattura made in America ad alto contenuto tecnologico. Ricostruire una nuova e consolidata partnership pubblico-privato, dunque, per vincere la corsa alla supremazia tecnologica con le armi che il Partito Comunista Cinese ha dispiegato in questi decenni per sovvenzionare le sue industrie strategiche. Le quali, rispetto ai microchip, rimangono fortemente dipendenti da Stati Uniti, Corea del Sud.

Due sono state fino ad ora le tattiche. Una governativa, con le restrizioni messe in campo dall’amministrazione per impedire la vendita di microchip a Huawei lo scorso febbraio, come raccontato da Formiche.net; la seconda commerciale, in seguito allo scacco di Trump con l’annuncio della prossima installazione di uno stabilimento di Tsmc in Arizona. Ora l’offensiva americana si sposta sul piano interno.

Lo scorso 28 aprile il Chief Executive di Intel, Bob Swan, in una lettura al Pentagono, rilevava come la sua azienda fosse “in una posizione unica” per poter collaborare con il governo nel settore dei semiconduttori. “Grazie per […] l’opportunità di discutere la possibilità di mantenere la leadership tecnologica americana e di rafforzare le basi domestiche della microelettronica”, ha riconosciuto Swan nella missiva. “Questo è più importante che mai data l’incertezza creatasi nell’attuale scenario geopolitico”.

Swan ha proseguito suggerendo che Intel possa agire da “fucina americana” nel fornire un’ampia gamma di segmenti di microelettronica, tanto al governo quanto ad altre compagnie americane. Tuttavia, come ricordano alcuni esperti Intel ha avuto un ruolo significativo e dinamico nel design, ma non nella produzione di microchip per altre aziende. C’è poi un ulteriore ostacolo alla possibilità di coordinare le più importanti realtà americane, come Qualcomm e Nvidia, come ricorda Scott Kennedy: “Ci sono poche compagnie che potrebbero beneficiarne straordinariamente, altre invece che crescono di più in un ecosistema d’innovazione e produzione globalizzato”.

Oggi, lo scenario si è fatto più interessante. Come riporta il Wall Street Journal, la Semiconductor Industry Association ha presentato una proposta al governo per un piano da 37 miliardi di dollari, inclusi sussidi per la costruzione di un nuovo stabilimento per la produzione di microchip, aiuti ai singoli stati per attrarre investimenti nel settore e una maggior spesa in ricerca e sviluppo.

Le crescenti tensioni con la Cina hanno indotto ad accettare sempre di più la possibilità di una “strategia industriale nazionale”, ha commentato Robert Atkinson, presidente della Information Technology & Innovation Foundation sulle pagine del Wsj. “Un tempo si trattava di proteggere l’acciaio. Ora il consenso è molto più convergente verso queste industrie promettenti”. Il programma stanzierebbe 15 miliardi agli stati come finanziamenti a fondo perduto, mentre i rimanenti 17 sarebbero suddivisi tra ricerca applicata e di base. “Il nostro piano presenta numeri importanti, ma il costo dell’inazione sarebbe decisamente più elevato per la nostra economia, la sicurezza nazionale e la leadership nel futuro di queste tecnologie critiche”, ha commentato il presidente della Sia e Chief Executive John Neuffer.

Attualmente, gli Usa contano circa il 13% della capacità manifatturiera mondiale di semiconduttori, più o meno la stessa quota nel 2015, come sostiene Martin Chorzempa, research fellow del Peterson Institute for International Economics intervistato alla Cnn. La Cina, al contrario, contava l’8% nel 2015 e oggi ha raggiunto il 12%. Ma più che ragionare di quote, sarà decisivo dominarne “la conoscenza e il processo […] nel paese e assicurarci che [gli Usa] abbiano la comprensione di tutto il processo di lavorazione”, dal momento che gli Stati Uniti “dominano il design dei semiconduttori” e la produzione “di quelli che sono utilizzati in Asia orientale”.

Si tratta chiaramente di un cambio di paradigma dalle notevoli ripercussioni nell’industria americana, soprattutto per quanto riguarda le regole antitrust e le possibili resistenze all’interno del panorama economico statunitense. Ma in un clima sempre più incandescente rispetto ai rapporti con la Cina e alla funzione di molte queste tecnologie (dal 5g all’intelligenza artificiale) è più che plausibile che la discussione possa proseguire al Congresso, dove già esiste un fronte bipartisan sulla necessità di un ruolo più incisivo del governo per sostenere i settori tecnologici all’avanguardia. Sabato, un gruppo di senatori guidati dal democratico Chuck Schumer e il repubblicano Todd Young hanno proposto un’iniziativa da 110 miliardi di dollari denominata Endless Frontier Act per rafforzare la spesa in tecnologia, inclusa la ricerca nei semiconduttori. Vannevar Bush, padre della ricerca scientifica e tecnologica americana, approverebbe.

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