Che la paura di un virus sconosciuto abbia lasciato spazio all’angoscia per una crisi economica che si preannuncia sempre più grave, lo dimostra la copertura nei media nostrani dei primi weekend della Fase 2.
Più che di giornalismo informativo, si è trattato di lancio promozionale volto a stimolare la voglia di svago accumulata durante il lockdown e di indirizzarla verso un messaggio subliminale: fate le vacanze in Italia (per carità).
È mantra così forte da ricadere in retoriche autarchiche di altri tempi, ricorrenti di recente tutt’al più nel settore alimentare (con richiami sovranisti al “brindisi con italianissimo spumante” o alla un po’ buffa “pizza patrimonio dell’Unesco”).
Abbiamo scritto su Formiche.net della “Guerra dei Turisti” in atto tra Stati intenti a competere per accaparrarsi quote della prima industria a ripartire nella Fase 2, complice anche il contestuale inizio della stagione estiva.
Ne è conferma la gestione dei confini nazionali da parte di singoli Stati dove, nonostante i richiami di Bruxelles a reintrodurre omogeneamente Schengen, le cancellerie europee si muovono ancora per conto loro, senza nemmeno giustificarsi.
Nei decenni sono nati complessi sistemi di governo economico europeo che al primo stress test (geo)politico sono risultati fuori contesto, come attori di film muti con l’introduzione del sonoro. La Troika può imporre come vuole alla Grecia brutali spending review; ma la Commissione Europea nulla può se Atene decide di limitare l’accesso agli italiani.
Troppo potere (economico) nel primo caso; troppo poco (politico) nel secondo.
Registrata l’evanescenza della Ue (con questi tempi di reazione, ci diranno come gestire i turisti dei mercatini di Natale), il governo italiano sta correndo ai ripari lavorando sul doppio binario di trattenere in patria il turismo domestico e di attirare quello straniero.
Sul primo, la strategia è semplice e gioca su due aspetti chiave: da un lato gli italiani sono un popolo da grandi numeri; dall’altro, hanno ora (per indigenza o timore) poca attitudine a spendere e soprattutto quest’anno è probabile che la tradizionale gita fuori porta passi direttamente da Pasquetta a Ferragosto.
Il turismo domestico oramai da tempo si muove in autonomia trainato dai tanti e piccoli consumi e dalle attività interne che il governo considera capace di cavarsela da solo nel post-pandemia (a tal punto da stanziare pochi fondi a sostegno del settore, a fronte, ad esempio, dei 18 miliardi di euro allocati dalla Francia).
In effetti la folla di turisti mordi-e-fuggi registrata negli scorsi weekend nelle classiche destinazioni del nostro turismo nazional-popolare (con in testa la Romagna) fa ben sperare per l’estate. È probabile che questa massa low budget produrrà alti numeri, utili per salvare per il rotto della cuffia il settore, seppure non senza importanti perdite.
Più complesso è il discorso sull’incoming straniero, che in questi anni ha per primo contribuito a cambiare la morfologia del turismo in Italia. Se Venezia, Roma, il lago di Como, Capri etc. erano già note ai tempi di Goethe e Lenin, è stato l’afflusso recente di visitatori stranieri su alcuni territori a obbligarli a reinventarsi come mete di un turismo tematico dove il più delle volte è stata la domanda a creare l’offerta.
È l’esempio di Milano, diventata mecca dello shopping del lusso e della moda, o di Bologna, destinazione per percorsi culinari o storico moto-sportivi, o ancora del Salento, meta dell’ agriturismo da masseria.
Campioni di questo rilancio sono stati incoming russi, cinesi, arabi, americani, brasiliani etc. iniziati inizialmente da ceti alto-spendenti; cui sono seguiti via via visitatori delle classi medie e medio-basse; risultanti della massificazione che ha vissuto il comparto turistico su scala globale.
Obiettivamente, con poche eccezioni, gli Enti turistici nazionali-regionali-comunali hanno rincorso questi trend piuttosto che crearli; con iniziative il più delle volte arrivate in ritardo.
Spesso inutili (convegnistica risultato di consulenze da sottobosco politico). A volte dannose (progetti di “internazionalizzazione” con spreco di risorse e senza risultati concreti).
Quindi, per capire se e quando i turisti stranieri torneranno da noi non serve chiedere alla nostra politica ma osservare come si stanno predisponendo a riguardo i Paesi da cui essi provengono.
Sul versante russo (forse il turismo straniero che maggiormente ha impattato per volumi da singolo Paese in Italia negli ultimi dieci anni) i segnali che stanno arrivando sono piuttosto contraddittori e fanno ipotizzare come quasi certo un ritorno a breve solo della fascia turistica alto-spendente.
Nel decreto del premier Mishustin del 6 giugno 2020, che elenca i casi eccezionali e urgenti (sanitari, emergenze familiari etc.) di cittadini russi che sono autorizzati a lasciare la Federazione, la parte finale introduce quella che sembra a tutti gli effetti una norma “ad personam” per venire incontro al gruppo di pressione dei benestanti russi (si calcola che solo a Mosca vi siano più di 650.000 residenti con una disponibilità finanziaria superiore al milione di dollari anche se i censiti superano di poco i 100.000).
Viene infatti estesa la possibilità di uscire dalla Russia anche per tutti coloro che possono mostrare un contratto di lavoro all’estero (anche da eventuali società di comodo) oppure che vi si rechino per studio.
Se si considera la possibilità ininterrotta data ai jet privati durante la Fase 1 di volare (pare che un “biglietto” Mosca-Nizza solo andata vada sui 6.000 dollari) e la alta diffusione tra i benestanti russi di un secondo passaporto “utile” per ingressi senza visti in altri paesi – ne esce un quadro di quasi assoluta libertà di movimento per gli alto-spendenti e per il loro staff al seguito (hostess, accompagnatori, cuochi, assistenti, skipper, maestri di tennis, etc.)
Discorso diverso riguarda la classe medio-bassa che per ora ancora non intravvede reali possibilità di vacanze all’estero; scoraggiate peraltro dalla svalutazione di un ulteriore 10% del rublo in seguito alla guerra del greggio (ora sui 78 rubli per un euro).
Ma è anche probabile che lo stesso governo russo sia tentato dal limitare i danni di una recessione economica durissima per una crisi combinata energetica e post-Covid, facendo convogliare le proprie classi popolari verso il suo turismo interno (l’industria domestica che insieme all’agro-alimentare maggiormente è stata rilanciata dal 2014 in seguito alle sanzioni per l’Ucraina).
L’ingessata agenzia federale russa per il turismo (Rosturism) ha scoperto un nuovo attivismo e, su diretto invito del Cremlino, ha lanciato massicce campagne di promozione di mete come Sochi, la Siberia, il lago Baykal, la Crimea. Mentre i tour operator, sensibili agli orientamenti governativi, stanno commercializzando pacchetti di vacanze a prezzi “politici” competitivi.
A soffrirne potrebbero essere nell’immediato quelle che negli anni passati sono state le principali destinazioni italiane delle classi medio-basse russe.
In testa vi sarebbe ancora la Romagna che per inciso proprio in questi giorni ha concluso un accordo importante per voli di linea iraniani su Rimini, finalizzando un lavoro iniziato già a Settembre 2019 dall’amministratore delegato Leonardo Corbucci su un percorso facilitato da canali diplomatici tracciati da Roma e Mosca (a sua volta, peraltro, tra le mete turistiche preferite dalla borghesia iraniana).
Questo non vuol dire che i progetti russi di aumentare l’arrivo del proprio turismo popolare in Italia siano cancellati; ma semmai solo temporaneamente rimandati.
A crisi mitigata (si spera già da agosto) è probabile che vengano attuati i piani previsti già prima del Covid di aumento sull’Italia delle tratte giornaliere coperte da Aeroflot e anche dalla sua low cost controllata Pobeda, in un progressivo sostituirsi dei voli di linea ai tradizionali ed imprevedibili charter. Come ancora resta sul tavolo (anche se a livello di mero studio di fattibilità) l’ipotesi di trasformare Fiumicino nel principale hub europeo di voli da e per la Russia.
Che – più che a logiche di mercato – risponderebbe alla tradizionale attitudine della politica estera russa di compiere gesti di aiuto e sostegno concreto a strategici Paesi alleati o amici. Senza badare ai costi.