Venti morti tra gli indiani, un numero imprecisato tra i cinesi (forse una decina secondo un tweet del direttore del Global Times, smentito dal governo). Le tensioni al confine tra India e Cina sono salite di livello generando quello che è il più sanguinoso incidente dal 1975. Escalation pericolosissima tra due potenze nucleari che raccolgono insieme il 40 per cento della popolazione del pianeta. Collettività eterogenee messe davanti a una crisi che da mesi procede al rallentatore e che negli ultimi giorni ha avuto uno scatto.
Lo scontro è avvenuto lunedì notte lungo la Valle di Galwan, nella regione di Ladakh — un’area isolata del Kahsmir. I reparti di confine non sono armati, è un accordo del 1998 per evitare rischi: lo scontro sarebbe avvenuto con armi improprie (sassi, bastoni, strumenti da lavoro, alcuni soldati sarebbero caduti dai dirupi). Il conteggio diffuso inizialmente parlava di due morti, già grave, ma fatto passare come una sorta di incidente. Poi la notizia è cresciuta, come si dice in gergo giornalistico, quando martedì 16 giugno è stato aggiornato da New Delhi il numero delle vittime.
Le tensioni partono da un conflitto, rapido e sanguinoso, combattuto nel 1962. Gli indiani subirono una sconfitta che è ancora una ferita aperta e che ha contribuito a modellare la politica estera dello stato-continente. Al di là delle questioni storiche, cosa ha portato a questo cambio di passo nelle schermaglie di confine? “Ci sono varie ragione che potrebbero essersi sommate – risponde Nicola Missaglia, esperto di India dell’Ispi – partendo innanzitutto dalla costruzione di una strada frontaliera da parte dell’India, una via di collegamento logistica per una base militare nell’area che non piace alla Cina”.
La linea di confine è lasca, tracciata nel 1914 dall’Inghilterra coloniale su mappe tutt’altro che esatte, passa per laghi e fiumi che rendono la separazione a tratti indefinita; la zona è geomorfoligicamente impervia, montagne sopra i 5000 metri (il picco con i 7135 del Nun Kun).
“A questo dobbiamo aggiungere – continua Missaglia – che la Cina ha detestato la decisione indiana di separare il Jammu e Kashmir perché in quella contesa indo-pakistana ci finisce in mezzo il China Economic Corridor, e Pechino è preoccupata da alcune dichiarazioni forti della componente politica del primo ministro, il nazionalista Nerendra Modi, secondo cui gli indiani dovrebbero spingersi ad approfondire il proprio controllo anche in aree del Kashmir pakistane”.
Il corridoio citato dall’analista, detto Cpec, è un’infrastruttura di proiezione strategica che collega Pechino con Gwadar, avamposto sull’indiano in cui la Cina ha costruito una base militare; non solo: da quelle zone passa il collegamento tra Tibet e Xinjiang, due delle regioni periferiche più complesse per il Partito comunista. “La Cina ci sta dimostrando che non ha problemi a rivendicare con aggressività i proprio interessi in territori contesi: guardiamo Taiwan o il Mar Cinese, o anche Hong Kong, e pensiamo che il confine sino-indiano è lungo oltre 3400 Km, dunque di aree delicate ce ne sono svariate”.
“Di fatto siamo davanti a due potenze emergenti che si stanno mandando segnali. Non credo che sia nell’interesse di nessuno fare una guerra nucleare, ma è una situazione da tenere sotto controllo. Certamente ha contribuito ad arrivare a questo punto anche l’effetto della pandemia. La Cina non ha gradito la chiusura dei confini e della vendita di materiale sanitario nelle fasi più critiche dell’epidemia da parte dell’India, ma ora sta ripartendo e su questo piano è in vantaggio rispetto a New Delhi, che invece è ancora nel mezzo della crisi”.
“L’emergenza sanitaria e tutto quello collegato ha portato la Cina in una situazione problematica, e quello che vediamo in questo momento è una sorta di volontà di puntellare i propri confini strategici affinché questi non vengano sfruttati, nel momento di debolezza, come mezzo per far crollare il castello”, spiega a Formiche.net Francesca Manenti, senior analyst Asia-Pacifico del CeSI.
“La Cina – aggiunge Manenti – vuole avere una capacità di controllo capillare nelle aree periferiche, e per questo la tensione con l’India è salita da quando New Delhi ha iniziato la costruzione di quella strada di collegamento che Pechino percepisce come un rafforzamento in quell’area di confine impervia”. Il concetto di percezione è fondamentale, spiega l’analista italiana: “La Cina considera l’India il principale rivale regionale, con cui non si può permettere di avere un confine poroso perché andrebbe in detrimento dell’interesse nazionale e della sicurezza”.
Meccanismi diplomatici di de-escalation sono stati subito messi in atto: dopo che i colloqui per le tensioni delle scorse settimane (già c’erano stati scontri e tre morti tra gli indiani) sono sfociati nell’incidente di lunedì notte, in campo sono scesi anche attori internazionali. Su tutti gli Stati Uniti. Le tensioni sono anche accresciute dal contesto globale? L’India fa parte di un raggruppamento di intelligence filo-americano con Giappone, Vietnam e Australia. È un’alleanza strategica — ma anche di carattere mentale di paesi che soffrono la Cina — e fa parte dell’enorme piano di attrito globale Washington-contro-Pechino.
“C’è da chiedersi se la presenza di Washington, protagonista dello scontro con la Cina, sia utile alla de-escalation. Credo che la partita sia più tra India e Cina, e i rispettivi nazionalismi per altro. C’è da capire come Modi vorrà gestire la partita a livello politico, perché finora è stata relegata a questioni affidate al ministero della Difesa (attirandosi addosso le polemiche di Raul Gandhi, ndr). Ma la dimensione politica sarà fondamentale, soprattutto per quanto riguarda la partita strategica regionale”, chiude Manenti.