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Libia. Italia sia promotrice di un’azione univoca europea. Parla Stefanini

“Dobbiamo valorizzare quanto più possibile la rendita di posizione che ci siamo costruiti tenendo aperta l’ambasciata. È una delle cose che ci permette ancora di restare nel gioco. È stata una scommessa, e un rischio: tenerla aperta con le bombe che cadevano lì vicino. Ma ci ha garantito un vantaggio, ora diventato un fattore fondamentale”, l’ambasciatore Stefano Stefanini (già consigliere diplomatico del Quirinale, rappresentante permanente alla Nato e svariati incarichi istituzionali) analizza con Formiche.net il ruolo attuale e futuro dell’Italia nella crisi libica.

La Libia è ancora una questione importante per l’Italia quindi: è cioè quello che possiamo definire un dossier strategico. Perché?

Lo è assolutamente, e lo è sempre stato, per tre motivi principali: energia, immigrazione, sicurezza intesa come pericolo che la Libia diventi un avamposto del terrorismo fondamentalista. Adesso si aggiunge una quarta dimensione: la presenza della Russia in Cirenaica, a poche centinaia di miglia dalle basi militari ospitate dall’Italia, come Sigonella. È una distanza che permette di interferire, per esempio a livello elettronico, con nostre basi strategiche. Non poco direi.

Appare evidente che, per lavorare in Libia, visto gli sviluppi del dossier, occorre avere a che fare con Turchia, Egitto e Russia, e perché no Francia: oggettivamente Roma ha capacità e interesse nell’essere della partita?

Turchia e Russia, anche come tendenze espansionistiche, sono due potenze medio-grandi e sono tra i poteri dominanti in Libia. L’Egitto è il grande vicino. Questi tre sono gli attori primari. Differentemente, la Francia si posiziona su un livello secondario: ha cercato di inserirsi, ma con risultati peggiori dei nostri. C’è dunque ancora spazio di entrare nel gioco, perché conosciamo la Libia, c’è un rapporto economico stretto attraverso l’Eni, abbiamo un vantaggio sul terreno.

Ancora oggi godiamo di questa influenza?

Abbiamo dalla nostra parte un tessuto molto strutturato, in anni di rapporti diretti. Ci sono imprenditori italiani che operano in Libia e sono parte della società locale. Nessuno come noi, difficile che qualcuno possa sostituire questo. Dobbiamo però riconoscere che la situazione è cambiata. Il nostro peso è attualmente inferiore a quello dei primi tre Paesi, perché questi sono gli sponsor che hanno tenuto in piedi militarmente le due fazioni. Noi abbiamo fatto piccole cose, buone come l’ospedale di Misurata, ma non sono quelle determinanti sul terreno del conflitto, e dunque contiamo, ma siamo un passo indietro.

Diplomatici da altri Paesi europei descrivono l’Italia come in vantaggio rispetto a tanti altri Paesi stati membri Ue, perché comunque mantiene a Tripoli l’unica ambasciata aperta. Un vantaggio, come da lei ricordato. Oggi, il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, tornato da una visita lampo a Tripoli, ha annunciato che l’Italia intende farsi promotrice di un piano per la ricostruzione. Roma cerca di farsi vettore per un maggiore coinvolgimento dell’Europa?

Sicuramente l’Italia deve fare il possibile affinché l’Europa si impegni di più, ma Bruxelles ha gli stessi limiti dell’Italia: siamo profeti disarmati. Gli spazi per un piano diplomatico europeo sulla Libia c’erano forse cinque anni fa, ma oggi mi sembrano ben più limitati dal procedere degli eventi. L’Italia però dovrebbe svolgere un ruolo: cercare di mettere insieme una linea comune in Europa, perché le gare di influenza non funzionano.

Si riferisce per esempio al nostro rapporto con i francesi?

Con la Francia, l’uno contro uno, è una gara tra poveri per tutte quelle ragioni che abbiamo detto prima. Se invece Roma e Parigi mettessero insieme gli sforzi reciproci, magari coinvolgendo il Regno Unito, l’Europa avrebbe modo di rientrare nel gioco rispetto agli altri attori primari.

Ma l’Ue ha interesse?

Dovrebbe, e se non fosse possibile muoversi con etichetta Ue (per varie ragioni inerenti a meccanismi decisionali), l’Italia potrebbe comunque smuovere Francia, Germania, Regno Unito, cioè come i grandi a mettersi d’accordo e agire in modo unito. Si fa già su altri dossier, pensiamo all’Iran per esempio, e credo che questa azione a geometria variabile sarà sempre più una soluzione valida.

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