Premessa: una doverosa e condivisibile protesta per la morte di George Flyod causata da un comportamento ingiustificabile della polizia di Minneapolis è degenerata in varie città americane in esecrabili violenze e saccheggi (nonché in atteggiamenti della stessa polizia in alcuni casi difficili – eufemismo – da comprendere). Questo breve articolo vuole però saltare a pié pari la parte dei “tifosi” pro-contro, non perché non importante, tutt’altro. Ma semplicemente perché troppa passione fa passare in secondo piano altri aspetti.
In particolare, è interessante analizzare il comportamento del presidente americano Donald Trump di questi giorni. Molti si sono domandati (e continuano a domandarsi) perché Trump non abbia da subito assunto un approccio più inclusivo e pacificatore invece di soffiare sul fuoco, in particolare attraverso i suoi ripetuti messaggi su Twitter. La risposta prosaica mi pare semplice: incentivi elettorali. Le elezioni si avvicinano e queste manifestazioni violente potrebbero rivelarsi un inaspettato aiuto per lui. Vediamo perché.
La vittoria di Trump di 4 anni fa non sarebbe stata possibile nell’America degli anni ’80 o fino a fine anni ’90. È diventata invece possibile in una America sempre più polarizzata affettivamente ed emotivamente tra tribù in guerra tra loro. Qualche cosa che, si noti, è nata ben prima di Trump, non dopo. Pensiamo giusto all’affermarsi dell’identity politics sotto la presidenza Obama. Trump (ma anche la stessa Pelosi o Ocasio-Cortez) rappresenta l’incarnazione al potere di questa “nuova America” in cui un genitore democratico sarebbe triste se suo figlio sposasse una repubblicana (e viceversa). Dati allarmanti alla mano: negli anni ’60 meno del 10% degli americani avrebbe disapprovato il matrimonio tra il proprio figlio/a si fosse e un elettore di un partito diverso dal proprio, laddove 50 anni dopo sfioriamo il 50%. E questo mentre, nello stesso lasso temporale, la percentuale di americani bianchi contrario al fatto che il proprio figlio/a sposi un americano nero (e viceversa) scende sotto al 5%.
Non ci credete ancora? Guardate qualche ora di Fox o della Cnn per capirlo. In questa nuova America la struttura degli incentivi spinge dunque a polarizzare. Continuamente. Anche chi non dovrebbe farlo (o almeno non farlo sempre) per la carica istituzionale che ricopre. Torniamo ora a Minneapolis & co.: il fatto che queste proteste abbiano preso una direzione anti-Trump (in questo veicolate sia dai Democratici che, punto importante e trascurato, dallo stesso Trump) e che siano spesso violente, possono diventare un fattore importante per le elezioni novembre. Permettono infatti a Trump di presentarsi – anche di fronte ad una certa reticenza di una parte del mondo democratico -come chi ripristina l’ordine in un paese profondamente diviso e scosso, specie nelle aree lontane dai grandi centri urbani. Aree che, si noti bene, saranno cruciali per la vittoria di novembre. Identifica un nemico interno. E fa dimenticare il resto (i morti legati al coronavirus, i milioni di disoccupati, ecc.).
È appena uscito un interessantissimo articolo sull’American Political Science Review, una delle riviste più importanti di scienza politica a livello internazionale, che analizza l’impatto delle proteste della minoranza nera e più in generale per i diritti civili tra il 1960 e il 1972 sul voto degli americani bianchi. I risultati sono chiari: le contee caratterizzate da proteste non-violente hanno visto un aumento dei voti per il candidato democratico alla presidenziali tra l’1,3 e l’1,6% di voti. Le proteste e le manifestazioni violente hanno causato all’opposto, sempre tra gli elettori bianchi, uno spostamento di voti verso il candidato repubblicano importante: nel 1968, ad esempio, la campagna di Nixon basata su “legge & ordine” gli diede un surplus di voti tra l’1,5% e il 7,9% in quelle contee che vissero più o meno da vicino l’esperienza di proteste violente.
La strategia di Trump è quindi razionale (dal suo punto di vista)? In linea generale sì, tenendo anche conto che tra le 50 città maggiormente colpite dalle manifestazioni di questi giorni, solo 4 hanno un sindaco repubblicano (San Diego, La Mesa e Jacksonville, Oklahoma City. Tutte le altre sono a guida democratica). Ma sarà vincente? I rischi in realtà non mancano. L’America di oggi è ovviamente assai diversa da quella di 40 o 50 anni fa, anche, ad esempio, in termine della popolazione che va a votare (basti considerare la crescita del voto delle varie minoranze, in particolare quella latina). Ma è un rischio che forse Trump deve correre.
Per concludere: sarà interessante a questo punto osservare l’andamento dei sondaggi (per quanto affidabili – ricordandoci quello che successe nel 2016) delle prossime settimane. Ma suggerirei di evitare di guardare solo quelli nazionali (che – dato il sistema con cui si elegge il presidente degli Stati Uniti – contano alla fin fine come il 2 di picche a briscola). Al contrario, sarà importante concentrarsi su quelle statali. Perché alla fin fine a decidere le elezioni non sarà l’hipster di New York o il neo-tech di Los Angeles, ma la classe media (a volte paciosa – altre volte molto meno) dell’Ohio e del Wisconsin.