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Non solo Silvia Romano. Perché regolamentare Ong e volontariato. Scrive Pellicciari

Ora che il clamore sul rilascio di Aisha Silvia Romano pare sfumato, il momento è propenso per una riflessione non tanto sulla vicenda (è terreno rischioso che resterà a lungo minato) quanto sulla questione più generale della politica estera e del suo rapporto con operatori di volontariato. Un breve articolo che faccia chiarezza in materia (ad oggi continuano a volare più opinioni che analisi fattuali) può solo abbozzare alcuni aspetti. Ci riproponiamo di tornare ancora sull’argomento  – intanto parliamo oggi della collaborazione pubblico-privato negli aiuti internazionali, fenomeno molto più esteso di quanto si creda.

Con il moltiplicarsi delle politiche di assistenza da parte dei donatori pubblici è cresciuta negli ultimi decenni la prassi di affidarne la realizzazione sul campo ad attori terzi. Il più delle volte privati. Questo meccanismo di aiuti pubblici attraverso canali privati ha riguardato tanto interventi classici di emergenza e sviluppo come quelli di “assistenza tecnica” (tipo quelli dati a un Paese beneficiario per riformare il suo assetto istituzionale). Al centro di questa dinamica vi è stata la trasformazione dei previsti interventi di aiuto inprogetti” la cui realizzazione ha coinvolto società di consulenza private (genericamente definite Contractors) o ad Ong.

La differenza formale tra le due è che mentre le prime sono autorizzate a fare marginalità (termine elegante per dire guadagni); le seconde non lo sono.

I motivi di questa crescente delega di azione ai privati vanno ricercati sia nell’impossibilità di donatori pubblici di seguire la realizzazione diretta di decine (quando non centinaia) di iniziative; sia nella natura tecnica di molti interventi (quando serve expertise che i donatori non hanno al proprio interno).

Esistono anche altri motivi più “oscuri” – di cui si parla poco – che vanno dalla necessità dei donatori di mantenere un controllo politico sugli aiuti (un progetto realizzato da privati è molto più indirizzabile); al potere di convogliare verso ambienti “amici” la gestione di ampie risorse (si parla di budget molto ingenti); oggetto di scambio da capitalizzare in termini di consenso politico.  Restando nella legalità formale.

Il fenomeno dei progetti in outsourcing è cresciuto a tal misura che oramai vi è una consolidata comunità di organizzazioni private i cui destini dipendono dai contratti che ottengono da una ristretta cerchia di Donatori pubblici (in genere, sempre gli stessi).

Ne consegue l’assottigliarsi della distinzione tra Contractors e settore non governativo, uniti dall’obiettivo principale di mantenere in piedi le proprie diramazioni organizzative, animate da operatori di professione retribuiti direttamente (con salario) o indirettamente (con rimborsi spese).

Nonostante questo rapporto iper-razionale tra donatori pubblici e organizzazioni private (profit o no profit cambia poco), le narrative sul tema rimandano ad un idealismo che poco racconta della realtà e che parla più dei valori e meno degli interessi (anche quando sono legittimi) che ruotano attorno agli aiuti. Queste narrative “ingenue” sono alimentate da una generale assenza di trasparenza sugli aspetti finanziari e logistici che riguardano i progetti; dove la comunicazione pubblica sul “prima” (il bisogno che l’aiuto andrà a coprire) è sempre di gran lunga superiore al “dopo” (ovvero su come si sono spese nel dettaglio le risorse).

I coordinatori degli aiuti dal canto loro vengono santificati a priori; come se il dichiarare di “fare il bene” sia sufficiente garanzia di “farlo bene” e come se il loro coinvolgimento individuale non sia in parte dovuto ad una (legittima ma remunerata) scelta occupazionale. Il che spiega perché ancora oggi nella opinione pubblica è radicato il fraintendimento del termine “volontario” con “gratuito” e ci si meravigli che il cooperante appena rilasciato dalla prigionia dichiari che è pronto a tornare ad operare là dove è stato rapito.

È reazione normale di chi cerca di mantenere il proprio posto di lavoro.

Se col tempo si è accettato che un partito politico porti ideali ma anche abbia al suo interno élite che cercano di soddisfare le proprie ambizioni; per le organizzazioni che gestiscono aiuti resta invece fissa l’immagine esclusiva di portatrici di valori. Questo spiega perché a tutt’oggi si presta poca attenzione e si pretendono meno informazioni sul reale impatto dei progetti di aiuto internazionale che, nella maggioranza dei casi, sono al di sotto delle aspettative e dei risultati attesi.

Alla crescita del “professionismo” nel settore non ha fatto riscontro un eguale aumento della “professionalità” degli interventi e nella migliore delle ipotesi Contractors e Ong riescono ad essere  “efficienti” (fanno ciò per cui sono stati pagati) ma di rado sono “efficaci” (producono un vero impatto, durevole e sostenibile).

Non vi è nulla di strano nel fatto che, nonostante gli scarsi successi (e spesso in presenza di fallimenti), Contractors e Ong si auto-assolvano e continuino a promuoversi e a competere per ottenere nuovi contratti e progetti; mossi dalla necessità di “fare budget” per mantenere strutture ed livelli occupazionali interni. Un po’ come dei juke-box che non suonano senza la monetina.

Semmai la cosa sospetta, da parte dei donatori statuali, è la tolleranza della oramai cronica deregulation del settore, che tradisce il loro disinteresse sul reale impatto degli aiuti che finanziano. E che forse meglio di ogni altro elemento dimostra che all’origine degli aiuti che sostengono vi è la loro volontà di entrare in una particolare zona di interesse geo-politico, creando un legame di  obbligazione politica. Whatever it takes.

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