“È arrivato un momento, anche per via delle capacità militari dei contendenti, in cui la situazione è di fatto in stallo. Vedremo combattimenti concentrati attorno a Sirte, mentre si cercherà una forma di stabilizzazione”: secondo Matteo Colombo, ricercatore del Mena Center dell’Ispi, il conflitto libico è a un punto di svolta, ma non è detto che sia una situazione risolutiva, o facilmente risolvibile.
Il neologismo geopolitico del momento è “sirianizzazione”, ossia l’istituzione di un meccanismo di cul-de-sac perpetuo simile a quello che si vede in Siria da anni, con Turchia e Russia come attori principali interessati a mantenere questo disequilibrato status quo. Ne ha parlato il presidente francese Emmanuel Macron, sostenitore discreto delle fallite ambizioni del signore della guerra della Cirenaica, Khalifa Haftar, e oppositore – non solo in Libia, ma nell’intero quadrante mediterraneo – della Turchia, ormai primo partner militare e politico della Tripolitania.
“In effetti, vedo la possibilità che si crei qualcosa di simile – spiega Colombo – con Italia, Stati Uniti e Germania interessate a mantenere la Libia unificata. Ma altri attori come Turchia, Russia e Egitto che pensano a possibilità di partizione, perché in quel modo potrebbero avere maggiore influenza”.
“Gli attori esterni in Libia sono interessati a una serie di questioni che non riguardano soltanto l’energia – aggiunge Federica Saini Fasanotti, storica della Brookings Insitution ed esperta della dinamiche libiche – ma anche la localizzazione strategica del Paese. Inoltre non dobbiamo dimenticare il prestigio internazionale, l’allure che vincere il conflitto per certi attori esterni significa. Pensiamo solo per esempio al presidente turco Erdogan: vincere sfide esterne significa guadagnare il consenso interno”.
La Turchia è uno dei grandi temi attorno al conflitto libico: da novembre, quando Ankara è entrata in azione a sostegno del governo onusiano di Tripoli, il Gna, la partita è cambiata, la campagna di Haftar sulla capitale è stata interrotta, e Libia è diventata un dossier in sovrapposizione con il grande tema geopolitico dell’EastMed, il quadrante orientale del Mediterraneo.
“Secondo me – spiega Colombo – c’è una grossa ambiguità a livello europeo: che tipo di atteggiamento vogliamo tenere nei confronti della Turchia? La consideriamo un partner, gli riconosciamo degli interessi, e sulla base di questo ci cooperiamo sebbene mettendo dei limiti? Oppure la vediamo come una sorta di rivale, da limitare con alleanze regionali di contenimento?”.
Una di queste potrebbe essere proprio il fronte EastMed, composto da Paesi come Grecia, Cipro, Egitto (e Francia) che ruotano attorno a un gasdotto omonimo (al momento difficilmente realizzabile) che ha fatto da catalizzatore geopolitico. “La visione su Ankara – continua Colombo – marca una differenza sostanziale tra Francia e Italia, per esempio. E risolverla sta diventando un’urgenza: cosa facciamo se la Turchia trovasse del gas nella regione orientale del Mediterraneo? E se a quel punto come Paese produttore volesse partecipare al forum con tutte le sensibilità connesse?”.
Anche sotto questi aspetti, la stabilizzazione libica potrebbe essere un passaggio per qualcosa di più ampio. Quale scenario? Il cessate il fuoco è l’iniziativa diplomatica immediata, anche per ragioni di carattere umanitario, ma successivamente servirà un’implementazione: un colloquio politico che richiederà mesi, se non anni, e accordi su rendite e milizie, che saranno passaggi su cui saranno i libici ad avere ruoli centrali.
“Le milizie sono il tema enorme – analizza Saini Fasanotti – che ha prodotto la disgregazione del territorio in termini di sicurezza. I gruppi armati sono formati da ragazzi e sono diventate un fenomeno antropologico, non solo sociale. Tenderanno a combattere perché nel conflitto hanno trovato il loro humus, il loro status sociale, e per questo potrebbero non avere interessi nel deporre le armi. È su ciò che dobbiamo operare, e non tanto sulla diplomazia”.
Fasanotti ha firmato insieme al collega Michael O’Hanlon, senior fellow della Brookings, un’analisi per The Hill – “The next step in Libya” – in cui ipotizza che l’arrivo di un contingente militare targato Onu possa essere l’unico modo per garantire una forma di equilibrio: sia riguardo alle milizie, sia agli attori esterni. Un modo per fermare il conflitto e andare oltre lo stallo perenne.