Una delegazione americana – guidata dal comandante di AfriCom, il generale Stephen Townsend, e funzionari del dipartimento di Stato, su tutti l’ambasciatore Richard Norland – ha incontrato il capo del consiglio presidenziale libico, il premier del Gna Fayez Serraj, a Zuara (ovest di Tripoli). Poi, secondo fonti locali non completamente confermabili al momento della stesura di questo articolo, avrebbe proseguito la visita verso Oriente per vedere il signore della guerra Khalifa Haftar nel suo quartier generale di al Rajma (poco a sudest di Bengasi).
Il momento è delicato, e Washington scende in campo, sebbene non scelga un campo – e sebbene sia più spostata verso il governo onusiano, potrebbe aver voluto mantenere le relazioni anche ufficiali con il campo haftariano. D’altronde nei giorni scorsi dal Cairo, sponsor del capo miliziano della Cirenaica, il livello dello scontro retorico era stato alzato. Il generale/presidente egiziano, Abdel Fattah al Sisi, ha mostrato i muscoli e fatto la voce grossa annunciando che Sirte e al Jufra rappresentavano due “linee rosse”. Dalla Casa Bianca, il Consiglio di Sicurezza nazionale ha chiesto moderazione.
The United States strongly opposes military escalation in #Libya – on all sides. We urge parties to commit to a ceasefire and resume negotiations immediately. We must build on progress made through the UN‘s 5+5 talks, the Cairo Initiative, and the Berlin process.
— NSC (@WHNSC) June 22, 2020
Le due città centrali della Libia, la prima sulla costa l’altra verso il deserto, rappresentano le ultime controllate dagli haftariani prima della Cirenaica. Sirte è accerchiata dalle forze delle Tripolitania – che hanno difeso la capitale dall’assalto fallimentare di Haftar e sono avanzate verso Est. E anche di questa situazione avrebbero parlato gli americani. Un paio di settimane fa, all’interno del governo libico è passata la linea di Serraj, veicolata attraverso il vicepremier Ahmed Maiteeg: evitare l’attacco diretto, negoziare una resa. Ma c’è ancora chi, come il ministro degli Interni, Fathi Bashaga, vorrebbe un’azione più netta.
Bashaga ha fatto circolare una risposta severa alle minacce egiziane: siamo pronti alla guerra, combatteremo. Mentre il Gna ha diffuso una nota di altro livello. Uno dei passaggi: “Tutto il territorio della Libia è una linea rossa. Le linee rosse sono state definite dal sangue dei martiri e non dalle dichiarazioni retoriche”. Per Tripoli sono “martiri” tutti coloro che sono stati uccisi, civili e combattenti, durante la campagna di assalto haftariana, durata negli ultimi 14 mesi, ma anche nelle attività precedenti con cui il generale freelance ha – in questi ultimi sei anni – cercato di intestarsi il paese come nuovo rais.
La tensione è comunque alta in Libia. Il Gna ha anche commentato la posizione di Sisi come “una minaccia di guerra”. In queste ultime quarantotto ore lo scontro retorico tra Egitto e governo libico (leggasi anche Turchia) è diventato il momento nevralgico. Gli Stati Uniti sono tirati da entrambi i lati, hanno ricevuto richieste di appoggio politico sia da Ankara che dal Cairo, che non hanno negato – sempre nell’ottica dell’obiettivo di cercare una stabilizzazione da remoto – cercando di dare legittimità a entrambi i fronti.
Per esempio, hanno appoggiato la road map prodotta dal Cairo per un ennesimo tentativo di negoziato – ma hanno chiesto che tutto rientrasse sotto l’egida Onu – e hanno rinverdito l’alleanza strategica con la Turchia a cavallo del Mediterraneo e del Medio Oriente (ruolo che per Ankara passa in modo cruciale dalla Libia). A entrambi i paesi hanno trasmesso la preoccupazione per la presenza in Cirenaica di asset militari (caccia) russi. In questo caso i turchi hanno un vantaggio: essendo schierati sull’altro lato, per gli Usa possono fungere da elemento di bilanciamento coi russi.
Il rapporto tra i due Paesi, che rovesciano in Libia l’enorme diatriba intra-sunnita (che vede la Turchia e il Qatar schierato contro i paesi che professano come massima politica generale il mantenimento dello status quo: emiratini, sauditi, egiziani, giordani), è stato al centro anche dell’incontro di oggi a Roma tra il ministro degli Esteri italiano, Luigi Di Maio, e il collega tedesco, Heiko Maas.
I due leader della diplomazia europea hanno rigettato qualsiasi ipotesi di partizione del paese – processo in cui la Turchia potrebbe ottenere molto più che una sfera di influenza a Ovest e la Russia e l’Egitto altrettanto a Est. E poi, in visita all’ammiraglio Fabio Agostini, comandante dell’operazione Ue “Irini” per il controllo dell’embargo in Libia, hanno entrambi espresso preoccupazione per le violazioni continue.
Faccenda nota, su cui né l’Onu – che ha emesso quell’embargo da quasi dieci anni – né l’Europa che cerca da pochi mesi di tutelarlo riescono a fare troppo. I meccanismi sanzionatori non sono chiari, e soprattutto sembra complesso avere la volontà politica di agire. Turchia da un lato, e Russia, Emirati Arabi, Egitto, Giordania, dall’altro, hanno costantemente violato le misure onusiane anche durante questi ultimi mesi.
(Foto: fonte dal Gna, il comandate militare tripolino, il generale di Africom, il premier libico e l’ambasciatore americano)