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Huawei, la muraglia tech cinese si infrange a Singapore. Ecco perché

È uno dei colpi più duri, perché viene da vicino, a poco più di duemila chilometri. Il colosso tech cinese Huawei è stato di fatto escluso dal mercato del 5G a Singapore. A spartirsi la piazza hanno avuto la meglio due aziende europee, le dirette concorrenti dell’azienda di Shenzen fondata da Ren Zhengfei. La svedese Ericsson si è aggiudicata la fornitura per Singapore Telecommunications, la finlandese Nokia invece quella per il gruppo capitanato da StarHub.

Huawei rimane solo parzialmente in partita, con un contratto per la fornitura locale di Tpg Telecom. Ma il verdetto rimane una cocente sconfitta in un Paese – pivot geopolitico della regione, da sempre attento a mantenere in salute i rapporti con Pechino. Formalmente è stato il mercato a decidere. Si è affrettato a precisarlo il governo dell’isola, “non abbiamo mai esplicitamente escluso un fornitore” ha detto il ministro delle Telecomunicazioni S. Iswaran. Spontanea o meno, l’esclusione di Huawei dallo spettro delle frequenze di Singapore si aggiunge a una lista ormai corposa di “no grazie” degli Stati fra Oceano Indiano e Pacifico, dall’Australia alla Nuova Zelanda fino al Giappone e perfino Taiwan.

Il colosso della telefonia mobile è accusato di spionaggio dagli Stati Uniti, che proprio questo mercoledì hanno inserito Huawei in una black-list di venti aziende considerate dipendenti dall’Esercito di liberazione popolare (Pla) cinese.

La battuta d’arresto a Singapore ha un significato geopolitico non banale, spiega a Formiche.net Brad Glosserman, senior advisor del Pacific Forum del Csis (Center for strategic and international studies) ed editorialista del Japan Times. “È un caso interessante per più di un motivo – dice – parliamo di un popolo estremamente arguto, che ha fatto della real politik la sua più grande forza, uno dei pochi Paesi del Sud-Est asiatico a maggioranza cinese. Sono sempre stati garanti degli equilibri regionali, ma ultimamente guardano con sospetto e preoccupazione la crescente influenza cinese. Ma al contempo sanno che gli Stati Uniti si stanno ritirando da quell’area, e che non hanno la forza di affrontare la Cina da soli”.

Quando si parla di innovazione Singapore vanta meritatamente il titolo di “unicorno” della regione. Il 5G ne è la prova: un passo dietro la Cina e la Corea del Sud, che hanno già avviato la commercializzazione della banda ultralarga, l’isola è pronta a fornire la rete a metà della nazione entro il 2022 e sull’intero territorio entro il 2025.

“Singapore sa che l’affidamento del 5G a Huawei può presentare rischi per la sicurezza nazionale – dice Glosserman – o comunque che può esporre il Paese nei confronti degli Stati Uniti”. Con la chiusura di un altro mercato i giochi per il gigante tech si complicano, “anche perché la principale fonte di chip nella regione, cioè Taiwan, ha iniziato a rallentare l’export dopo il ban americano”.

Sull’effettiva minaccia di Huawei l’esperto del Pacific Forum ha qualche dubbio. “Le evidenze scarseggiano e tutto ciò di cui è accusata è identico a quanto fatto da Cia ed Nsa negli scorsi anni, altre grandi aziende occidentali come AT&T, Orange o T-Mobile devono rispondere allo stesso modo alla richiesta di collaborazione delle rispettive autorità. Diciamo che Huawei è particolarmente accomodante verso le richieste delle autorità cinesi”.

Il problema, però, resta il mercato. “Qui sì che Huawei costituisce una vera sfida, perché, che sia o meno a causa dei sussidi statali, costa molto di meno delle sue concorrenti. Non puoi batterla senza un’alternativa”. Se le aziende occidentali in Europa ed Asia sono restie a sostituire la tecnologia Huawei è anche e soprattutto a causa dei costi di transizione, spiega Glosserman. “Molte di queste aziende hanno installato antenne 4G di Huawei, per cambiare fornitore per il 5G devono smontarle una ad una, è un’operazione costosissima”.

Costosa però sarà per Huawei la recente mossa del Dipartimento del Commercio americano, che ha di fatto spezzato la catena di fornitura dell’azienda cinese impedendo la vendita di semiconduttori ed altro equipaggiamento con componenti di tecnologia statunitense. Un bloody nose che ha costretto ad esempio il colosso taiwanese del settore Tsmc, principale fornitore di semiconduttori di Huawei, a rallentare le commesse nel timore di incappare nelle sanzioni americane. “La stretta sui diritti di proprietà intellettuale e i semiconduttori costringerà Huawei a un’indigenizzazione della produzione e avrà un enorme impatto nei prossimi 5-10 anni – chiosa l’esperto – rallenterà gli investimenti nell’innovazione, obbligando l’azienda a lavorare duro per mantenere la sua quota di mercato”.



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