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Proxy war e diplomazia. Cosa si muove dentro (e fuori) la Libia

In Libia, le intense attività politico-diplomatiche di questi giorni e gli annunci possibilisti dell’Onu su un nuovo ciclo di negoziati, sono accompagnati da evoluzioni militari sul campo. Il conflitto continua, e dopo il ritiro delle forze del signore della guerra dell’Est, Khalifa Haftar, dall’intera Tripolitania settentrionale, il piano di assalto a Tripoli lanciato 14 mesi è praticamente fallito.

Non è chiaro quanto possa essere momentanea o definitiva la sconfitta di Haftar, ma è evidente che in questo momento ci si trova davanti a un punto di svolta. L’interesse esterno predomina la forza degli attori sul campo da sempre nel conflitto civile libico, ma è possibile che adesso si vada verso una rimodulazione.

La Turchia ha ottenuto un risultato: è intervenuta (non senza interesse diretto) al fianco di Tripoli, ha proiettato le proprie ambizioni geopolitiche sul Mediterraneo, ha compensato l’insuccesso siriano (dove non è riuscita a instaurare un governo affiliato alla Fratellanza), ha usato il terreno per il confronto intra-sunnismo col Golfo, ha trovato soddisfazione nel dimostrare valore politico-militare a livello internazionale.

Il premier di Tripoli, Fayez Serraj, che dichiara la ripresa della regione occidentale del paese da Ankara, alla presenza del presidente turco Recep Tayyp Erdogan, è un’immagine simbolica non solo per la partita libica, ma anche per il dossier mediterraneo – dove i turchi fronteggiano un asse greco-cipriota, spalleggiato da Francia ed Egitto.

Sull’altro lato, quello della Cirenaica (non chiamiamolo semplicemente “pro-Haftar”) ci sono forze distinte. Su tutte la Russia, che ha aumentato la sua presenza regionale con un dispiegamento aereo che dovrebbe compensare la presenza turca. Mosca allo stesso tempo non sembra interessata a un coinvolgimento pesante (in stile siriano, nonostante abbia messo in campo forze regolari come i caccia).

Resta la volontà di essere parte del dossier, e anche per questo il Cremlino ha rassicurato il Gna di Tripoli sulla volontà di muoversi per il riavvio del percorso politico, su stampo Onu, e su questo potrebbe portare l’Egitto e gli Emirati Arabi. Al Cairo oggi c’è Agila Saleh, presidente del parlamento HoR (riconosciuto dall’Onu) che ha una road map politica propositiva – gli egiziani la sposano, ma vorrebbero alternative a Saleh e per questo pressano Haftar a nominare un suo vice potabile.

E sulla stessa impronta potrebbero trovarsi anche gli emiratini, attori massimalisti dietro Haftar – su cui hanno un interesse ideologico, simile all’Egitto, per il mantenimento dello status quo che rappresenta l’establishment di potere sunnita nella regione, ma anche regionale (anche qui al pari dell’Egitto).

Oggi il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, ha avuto una conversazione telefonica col principe ereditario Mohammed bin Zayed, e hanno concordato la necessità di un cessate il fuoco in Libia e sulla ripresa del dialogo politico sponsorizzato dalle Nazioni Unite. Abu Dhabi ha interessi anche geopolitici, che vedono coinvolti in Libia e nel Nordafrica mediterraneo anche la Cina.

Pechino è un attore laterale, che guarda però con estremo interesse al bacino, e su cui gli Stati Uniti hanno occhi puntati e cercano continuamente partner funzionali – nel caso la Turchia potrebbe essere della partita – mentre gli Emirati vorrebbero unire alle vie della seta la catena di porti che sale su per Suez e sfocia nel Mediterraneo.

Interesse americano, anche questo, alla pari della presenza russa in Cirenaica. Al punto che Washington ha deciso di inviare militari in Tunisia per bilanciare lo schieramento del Cremlino nell’Est – la regione è il centro del valore per egiziani ed emiratini, due Paesi che nonostante tutto sono pronti a parlare con Washington; cosa che la Russia evita.

Delicata la posizione dell’Italia, che ha recentemente ravvivato l’iniziativa diplomatica con la Francia – sponsor clandestino di Haftar, mentre in maniera formale Parigi sostiene l’Onu a Tripoli. Se i francesi sono tra i grandi sconfitti dalla situazione libica – e ora soffrono la competizione con la Turchia nel Mediterraneo – restano attori di rilievo.

Poco dietro, ma con la possibilità di maggiori spazi per il minore coinvolgimento finora, la Germania, che a inizio anno ha ospitato la più fallimentare delle iniziative sulla Libia recenti: la Conferenza di Berlino, metodo diplomatico ormai difficilmente applicabile in modo credibile, che però adesso ritorna come paradigma perché le potenze medie e grandi impegnate attorno al conflitto sembrano indirizzate verso una stanca stabilizzazione della situazione.

La fotografia la offre il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, in conferenza stampa con il collega tedesco Heiko Mass: “La situazione sul terreno ci preoccupa moltissimo e prefigura il rischio di un’escalation verso una crisi di portata regionale o internazionale. Il continuo afflusso di armamenti a entrambi gli schieramenti in violazione dell’embargo, così come la presenza sul campo di mercenari per noi devono cessare”.

Il punto è questo: se non ci si ferma, il rischio è una guerra ampia e devastante. E forse adesso, conquistate diverse posizioni da una parte e rafforzate quelle di maggiore interesse dall’altra, la guerra civile è stanca e chi la porta avanti dall’esterno potrebbe non spingere più l’acceleratore della guerra, per evitare che slitti la frizione contro un muro.

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