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Radiografia di una parata. Pellicciari spiega perché Mosca guarda ad Est

Da sempre, i summit delle organizzazioni multilaterali più che per i lavori assembleari servono per organizzare incontri volanti a latere con una flessibilità che fa invidia alle classiche visite bilaterali, dove si spendono interi mesi per allestire missioni di Stato per pochi minuti di vero contenuto.

Nell’attuale monotonia della digitalizzazione politica (si veda la fiacca delle video-riunioni dei Consigli Europei) è normale l’attenzione che ha generato la Parata del 75esimo anniversario della Vittoria, tenutasi il 24 giugno a Mosca, tra i primi eventi politici in carne ed ossa nella Fase 3 del Covid.

Come avviene per funerali di Stato, matrimoni reali o incoronazioni (memorabile quella nel 2019 del nuovo imperatore Giapponese Naruhito), il valore della Parata va ben oltre il motivo specifico della celebrazione e diventa opportunità di incontro per i leader mondiali e cartina di tornasole per comprendere tempi e temi politici in auge.

L’aspetto più interessante per l’analista riguarda il capitolo degli ospiti stranieri per fare, sulla base delle presenze (nonché assenze) eccellenti, alcune considerazioni sulle attuali priorità della politica estera russa.

Quella più evidente è l’orientamento di continuare a guardare più ad Est che ad Ovest, dopo le chiusure diplomatiche seguite alla crisi Ucraina e culminate per il Cremlino in sanzioni, isolamento internazionale e, soprattutto, esclusione dal G8.

È una strategia che punta al rafforzamento della dimensione geo-politica Eurasiatica e che verte su due piani convergenti.

Il primo riguarda il tentativo di Mosca di tornare ad essere il principale punto di riferimento politico per le Repubbliche ex-sovietiche grazie a reti di influenza tessute durante la legacy di Vladimir Putin che più volte ha preso le distanze dalla scelta “frettolosa” del suo predecessore Boris Yeltsin di smantellare l’Urss.

A parte la scontata assenza dei Baltici della Ue, di Ucraina e Georgia, avvicinatesi alla Nato e date quasi per perse (anche se la normalizzazione russa dei rapporti “dal basso” con Tbilisi ha fatto passi da gigante), tutte le altre 8 Repubbliche ex-sovietiche sono state presenti alla Parata con il loro presidente e\o contingente militare.

In particolare ha colpito la visibilità dei Capi di Stato di Moldavia, Igor Dodon, e Uzbekistan, Shavkat Mirziyoyev, due Paesi su cui Unione Europea e Usa avevano a suo tempo puntato con obiettivi politici e strategico-militari e che ora sembrano rientrati in orbita russa. Facilitata, va detto, dalla scarsa incidenza e numerosi scandali dei programmi di aiuto europei (nel caso della Moldavia) e dal progressivo disinteresse per l’area di Donald Trump (nel caso dell’Uzbekistan).

Il secondo piano della strategia di protagonismo ad Est rimanda al tentativo di Mosca di confermare la collaborazione con tutti i principali attori asiatici, a partire da Pechino, da cui il Cremlino si guarda bene (non ne avrebbe le forze) dal prendere le distanze in seguito al crescente scontro Usa-Cina e pur in presenza di un avvicinamento in corso tra Mosca e Washington.

Inoltre, come dimostra la singolare presenza contemporanea alla Parata di un contingente militare cinese ed uno indiano, a pochi giorni dal sanguinoso incidente tra i due Paesi, Mosca rilancia il suo ruolo di super-potenza (anche) di mediazione, sulla falsa riga di quanto già visto in altre zone calde (nel Medio-oriente, in Siria, Iran e prima ancora in Corea del Nord).

Altro scenario di interesse geo-politico emerso dalla Parata è quello balcanico, contesto del quale Mosca si sta occupando con crescente convinzione, dopo le delusioni degli anni ‘ 90. Basti ricordare a riguardo lo scarso ruolo giocato in Bosnia negli accordi di Pace di Dayton e nella missione S-FOR; nonché la netta sensazione di essere stata tratta in inganno dagli USA in Kosovo; circostanza che decretò all’epoca la parabola calante del negoziatore russo, l‘ex-Primo Ministro Viktor Chernomyrdin.

Alla Parata di quest’anno è stato molto visibile il presidente Serbo Alexandar Vucic (al fianco di Putin davanti alla Fiamma Eterna al milite caduto), fresco di una recente netta affermazione elettorale; nonché il sempreverde Milorad Dodik, membro della presidenza collegiale della Bosnia ed Erzegovina ma soprattutto leader indiscusso della entità costituzionale serbo bosniaca che da più di 20 anni scalpita per rafforzare i legami con Belgrado (di fatto sua città di adozione e principale centro di interessi).

La loro presenza congiunta è un chiaro segnale che Mosca vorrà dire la sua sulla questione kosovara ora che Vucic si sta avvicinando ad un imminente accordo finale con il Presidente del Kosovo Hashim Thaci, anche se la notizia bomba di una messa in stato di accusa per crimini di guerra di quest’ultimo, arrivata a sorpresa il 24 Giugno, ha cancellato il previsto summit di Washington e porterà a un inevitabile ritardo del processo.

Che a questo punto avrà importanti ricadute anche sulla questione serbo-bosniaca prima ricordata e su un eventuale ingresso futuro della Serbia nella Ue (ma non ovviamente nella Nato) con un placet del Cremlino, che – per inciso – ha confermato l’altamente simbolica visita di Ottobre 2020 di Putin a Belgrado per inaugurare la chiesa di San Sava, finalizzata dopo interminabili lavori grazie ad un sostegno di Gazprom.

Questa chiave di lettura parrebbe rafforzata anche dall’assenza a Mosca del neo-presidente socialdemocratico croato, Zoran Milanovic, intenzionato ad esserci ma bloccato ufficialmente da un guasto all’aereo di Stato (più probabilmente dalle imminenti elezioni parlamentari) e di quello montenegrino, Milo Djukanovic, cui invece sarebbe stato negato un invito alla Parata, nonostante una sua insistenza a parteciparvi.

Habituè del Cremlino nel processo di distacco dalla Serbia (note le sue visite all’epoca in forma privata al Park Hyatt di Mosca, spesso ad insaputa della stessa ambasciata montenegrina), durante la amministrazione di Barack Obama, Djukanovic aveva clamorosamente voltato le spalle a Mosca per aderire alla NATO, per poi trovarsi platealmente scaricato da Trump (quando nel Luglio 2018 disse apertamente che non sarebbe entrato in una terza guerra mondiale per via del Montenegro).

Incline negli ultimi anni più a soft-power retaliation diplomatiche che militari, è probabile che Mosca si sia rivalsa nei confronti di Djukanovic negandogli la passarella della Parata e relegandolo ad un purgatorio di irrilevanza internazionale che alla lunga lo penalizzerà nel suo piccolo ma conflittuale scenario interno.

Monopolizzata da Eurasia e Balcani, la Parata ha registrato le assenze di tutti i principali leader europei. In alcuni casi (come di Emmanuel Macron, ospite d’onore nella versione originaria prima del rinvio per Covid) sono state diserzioni concordate da non caricare di significati politici (come confermano i ricorrenti summit telematici tra il Presidente russo e quello francese).

In altri, è stata evidente la presa di distanza da un evento di grande impatto (nessuno organizza le parate come i Russi) che acquista un chiaro significato di legittimazione dell’establishment a pochissimi giorni da un referendum confermativo su riforme costituzionali che, senza il Covid-19, sarebbe stato una mera formalità e che oggi invece deve confrontarsi con l’incognita dell’astensione dell’elettorato.

Sono passati solo dieci anni da quando, tra lo stupore divertito dei Moscoviti, un contingente militare Nato sfilò nella Parata della vittoria del 65esimo Anniversario della Vittoria. La situazione internazionale all’epoca era ugualmente complessa e pesante (due anni prima vi era stata la guerra russo-georgiana culminata con il distacco di Ossezia del Sud e Abkhazia), ma quel gesto fece ben sperare quanti puntano su una collaborazione Mosca-Washington per un Nuovo Ordine Mondiale.

Oggi, per quanto Usa e Russia si stiano riavvicinando, una replica di quella circostanza sarebbe impensabile. Quando si dice che si stava meglio quando si stava peggio.

 

 

(Foto: Kremlin.ru / TASS)

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