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Guerra e crisi economica in Siria. Assad sull’orlo del baratro

Il magazine di Politico la scorsa settimana ha pubblicato un’articolata analisi firmata da Charles Lister, resident fellow al Middle East Institute e tra i massimi esperti sulla situazione siriana (da anni). “Is Assad about to fail?”: il titolo è esplicito, Lister – sempre molto critico col regime, ma non per questo meno attendibile – valuta che il cambio del primo ministro deciso dal presidente-dittatore siriano, Bashar el Assad, sia un segnale evidente di sofferenza per il satrapo che ha portato il Paese alla guerra civile, tecnicamente vinta al costo di oltre mezzo milione di morti.

Nel Paese la situazione è delicata: per esempio, il licenziamento del premier ha seguito giorni di protesta da parte dei drusi (proteste svariate). Se si considerano i rischi che corre ogni singolo cittadino nello scendere in strada a manifestare in un mondo come quello siriano, in cui dalle manifestazioni tutto è partito, e in un contesto come quello del regime che s’è già speso in repressioni sanguinose, allora tutto assume un valore ulteriore.

I manifestanti gridano “malediciamo la tua anima, stiamo arrivando da te” come nel 2011. A Suuwayda, centro dei cortei, ringhiano le squadracce del regime e la situazione è tutt’altro che sotto controllo. Si tratta della prima, massiccia manifestazione di insofferenza da parte della collettività siriana, che mostra palesemente la sua idiosincrasia rispetto al regime. L’establishment entra in una difficoltà ulteriore: non ha il controllo della popolazione, dunque manca di ossigeno.

La crisi economica è il peso maggiore sulla testa di Assad. C’è una maggioranza clamorosa della popolazione siriana, l’85 per cento, che vive sotto la soglia di povertà; e se si abbina a questo la caduta a picco del valore della Lira, la corruzione endemica che crea una disparità spaventosa anche in termini di diritti (non solo economici), e sopratutto la crisi finanziaria in Libano, allora appare chiaro come il Paese sia sull’orlo del baratro.

Di nuovo: e nonostante le forze assadiste abbiano riconquistato la gran parte del territorio finito nel corso di questo quasi-decennio di guerra sotto le forze della rivoluzione. O meglio, le costose campagne militari hanno probabilmente accentuato la crisi. La spesa militare non aveva bilanciamenti di entrate: doveva servire a soffocare le opposizioni, ma Assad se n’è trovate altre pronte a rialzare la testa.

Damasco ha contato su un gruppo eterogeneo di sponsor, dagli iraniani alle milizie sciite, fino al contingente militare inviato dalla Russia per assicurarsi la permanenza del proprio uomo al potere (e dunque a tutela dei propri interessi nel Paese e nel quadrante Mena, di cui la Siria è un fulcro). Ma anche tra queste forze, finora in partnership semi-forzata e utilitaristica, sembrano emergere sempre più fortemente le differenze – o forse sarebbe meglio dire le separazioni, spaccature anche piuttosto profonde.

Anche da certe faglie passa il futuro della Siria. Secondo Lister, per esempio, uno scenario possibile è che Mosca faccia da arbitro, sacrifichi Assad e riesca a ricostruire un patto sociale nuovo, seppure forzato, con cui far proseguire le cose. Che per la Russia significa mantenere la presenza in Siria, avamposto come detto strategico.

Per far questo però manca un passaggio: i russi dovrebbero avere forza per investire nella ricostruzione, ma economicamente l’Orso non ha la stessa capacità politica. C’è un tentativo di coinvolgere la Cina per finanziare la ricostruzione – anche politico-istituzionale, si intende – della Siria, ma Pechino non è troppo interessata a farsi tirare dentro in un dossier che è ancora in disequilibrio e che vede la Russia in competizione interna con l’Iran e i suoi proxy. Ancora meno nella fase post-Covid che spariglia molte della dinamiche geopolitiche esistenti.

Se non passa questa opzione-Russia, ne restano due: o il regime si stringe ancora di più, si isola e crea un fossato tra sé e il resto della cittadinanza (innescando chiaramente dinamiche di separazione, rancore e rabbia ancora più forti); oppure si aprirà una stagione di lotta per il potere. La diatriba col cugino, il potente businessman Rami Makhlouf, è un paradigma di come potrebbe proseguire le cose per un Assad sempre più in difficoltà.

A salvarlo potrebbe arrivare (altra ipotesi, non troppo fantasiosa) un aiuto inaspettato: quello del Golfo. Anni fa, i Paesi arabi hanno cercato di rovesciarlo, ma in fin dei conti – vista l’apertura della faida intra-sunnita, resa esplicita con la situazione in Libia – la presenza di Assad a Damasco, sebbene alawita (setta sciita), rappresenta una forma di mantenimento di quello status quo per cui emiratini e sauditi trafficano in competizione con Turchia e Qatar.

Ad appesantire la situazione potrebbero arrivare le sanzioni previste dal Caesar Syria Civilian Protection Act, una legislazione elaborata da Capitol Hill (e avallata dalla Casa Bianca) che intende punire il regime siriano, incluso il rais Assad, per i crimini di guerra commessi contro la popolazione siriana. La misura dovrebbe entrare in vigore dal 17 giugno, e colpirà individui e società connesse al regime – comprese entità russe e iraniane.

“Bashar al-Assad e il suo regime sono direttamente responsabili del crollo economico siriano, in quanto spendono decine di milioni di dollari ogni mese per finanziare una guerra non necessaria contro il popolo siriano invece di soddisfare i loro bisogni di base”, ha scritto l’ambasciata americana in Siria spiegando le ragioni del Ceasar Act – che prende il nome da quello in codice usato per l’ex insider del regime che aveva disertato e reso pubblici centinaia di documenti che raccontavano le torture assadiste contro le opposizioni (Caesar aveva testimoniato davanti al Congresso).



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