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Stati generali, così fan gli altri (occhio all’esempio americano)

Si aprono oggi a Roma gli Stati Generali per il rilancio del Paese che si svolgeranno fino alla prossima settimana presso la residenza del governo a Villa Pamphili. Dopo l’indirizzo di apertura del presidente Conte, sono intervenuti: il presidente del Parlamento Europeo, David Sassoli la Presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen il Commissario europeo all’Economia, Paolo Gentiloni la Presidente della Banca Centrale Europea, Christine Lagarde il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel. Nel primo pomeriggio gli incontri proseguiranno con gli interventi del governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, del Segretario Generale dell’Ocse, Angel Gurría, e della Direttrice Operativa del Fondo Monetario Internazionale, Kristalina Georgieva.

GLI STATI GENERALI DELLA FRANCIA

Molti addetti ai lavori hanno comparato l’assise odierna agli Stati Generali della Francia del XIV secolo, quando l’organo collegiale che, prima della Rivoluzione francese, serviva per limitare il potere monarchico, era composto da clero, nobiltà e la borghesia, definita anche ‘terzo Stato’. Gli Stati Generali vennero convocati per la prima volta dal re Filippo il Bello il 10 aprile 1302 nella chiesa di Notre-Dame a Parigi. L’ultima invece fu nel 1789, da quel momento vennero trasformati nell’Assemblea nazionale costituente.

L’ESPERIENZA AMERICANA

Ma il vero riferimento storico nell’età contemporanea è rappresentato dall’esperienza americana. Infatti, negli anni Ottanta del secolo scorso gli Stati Uniti combatterono una lotta senza quartiere contro l’Unione Sovietica ed il Giappone condotta, prima, dal presidente democratico Jimmy Carter e, poi, da quello repubblicano Ronald Reagan. L’America dal decennio precedente soffriva un calo della produttività del lavoro e dei fattori della produzione. Il Paese da esortatore, importava macchine utili alla produzione, subiva gli effetti della cosiddetta Guerra fredda e soggiaceva alla crescita industriale del Giappone. Appena fu eletto alla Casa Bianca, nel novembre del 1981, Reagan impose la strategia della Defense Priority contro la minaccia militare dei sovietici che definì pubblicamente “l’Impero del male” e sfidò economicamente i giapponesi.

Il presidente Reagan convocò a ripetizione innumerevoli “meeting” con i più importanti scienziati ed economisti americani per individuare le direttrici strategiche su cui concentrare l’azione del governo, al fine di riconquistare la leadership tecnologica in ambito internazionale. Fu rafforzato, di conseguenza, il programma “Space Trasportation System”, ebbe inizio il progetto “Strategic Defense Initiative”, furono avviate partnership tra governo, industrie e università come il “National Engineering Action Conference”.

La svolta della politica industriale statunitense può essere sintetizzata da un piccolo oggetto che rappresentò il segno della vittoria conseguita: il semiconduttore. L’industria dei semiconduttori era sempre stata ad appannaggio degli americani che detenevano la metà della produzione mondiale. Negli anni Ottanta, però, il Giappone si concentrò sulla produzione di specifici semiconduttori, denominati “Dynamic Random-Access Memory”, stabili ed economici, e la produzione nipponica di questi “Dram” raggiunse nel 1987 l’80% della produzione mondiale.

Gli Stati Uniti reagirono prima con la pianificazione politica e poi con quella innovativa. Solo nel 1994 riconquistarono la leadership del mercato mondiale dei semiconduttori e confinarono la produzione specifica del Giappone al 28% di quella internazionale. Dall’inizio di questo secolo gli Usa hanno consolidato la supremazia industriale sul Paese del Sol Levante, mentre in ambito geopolitico, la dissoluzione dell’Unione Sovietica, sul finire degli anni Novanta, ha creato uno spazio che è stato prontamente occupato dalla Cina. Ma quest’ultima è un’altra storia.

NON SBAGLIARE LE SCELTE

Per l’Italia non si pone una dinamica analoga, rappresentata dalla produzione industriale dei semiconduttori a stelle e a strisce. Il problema è ben più complesso. Di fatto il Paese manca di una vera e propria politica industriale come dimostrano le centinaia di progetti antitetici e difformi presentati nell’ultimo decennio a Bruxelles per accedere ai fondi strategici di investimento. Ora che i vertici europei, a seguito degli effetti della pandemia del Covid-19, hanno aperto come non mai i cordoni della borsa per riversare una cascata di risorse sull’economia continentale, e quella italiana in particolare, non bisogna sbagliare.

Gli Stati Generali per il rilancio del Paese non saranno risolutivi, in questo senso. Ma si potrebbe proprio prendere spunto dall’esperienza americana per scegliere su quali settori strategici le risorse che l’Italia si appresta a ricevere, al fine di riavviare la ripresa economica, a partire dal settore manifatturiero. Per farlo occorre stimolare la domanda interna privata, la crescita in valore della bilancia commerciale, accrescere la domanda aggregata. Se non si sbagliano le scelte, i risultati non verranno subito, ma almeno tra un lustro. Ma è l’unico modo per scuotere un sistema economico che soffre. No, stavolta non si può sbagliare!

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