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La corsa alla Terre rare potrebbe ricompattare l’Occidente. Ecco come

La crisi sanitaria ha rilanciato un tema cruciale nei rapporti tra l’Occidente e la Cina: quello della dipendenza, e vulnerabilità, delle supply chain. L’interdipendenza globale, in questi contesti di crisi, rischia di diventare un’arma a doppio taglio. Specialmente nei settori dove Pechino ha stabilito un controllo ferreo, come nel caso dei metalli rari: è il più grande produttore di 18 minerali critici, e quasi monopolista (più del 70% del mercato) di altri cinque, tra cui le terre rare. Per ovviare a questa grave asimmetria commerciale, gli Stati Uniti nell’ultimo anno hanno avviato una serie di iniziative per trovare delle contromisure strategiche e diplomatiche, come raccontato da Formiche.net. 

Tra i partner coinvolti, l’Unione Europea, che dal 2008 è impegnata a promuovere una sua Raw Materials Strategy, prediligendo policy per mitigare i rischi, diversificare i rifornimenti, investire in ricerca e sviluppo e garantire una maggiore sostenibilità nelle catene di approvvigionamento. Josep Borrell, Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, insieme a Thierry Breton, commissario europeo al Mercato interno, ha ricordato in un articolo martedì scorso la posta in gioco nell’attuale scenario di crisi, “in particolare di fronte alle crescenti tensioni tra gli Stati Uniti e la Cina”. In questo contesto di competizione geopolitica, “l’era di un’Europa conciliante, laddove non addirittura ingenua, è finita”, e richiede di essere “più resiliente per prevenire e resistere meglio agli shock futuri”, soprattutto quelli sanitari. Non solo, dal momento che per il prossimo futuro “essenziali sono anche certe tecnologie, certe materie prime essenziali (come le terre rare), l’industria della difesa, nonché i media. Senza isolarci dai nostri partner, senza cadere nella trappola del protezionismo, non possiamo non dotarci di capacità collettive sufficienti a proteggere i nostri valori e i nostri interessi”. 

Lo scorso novembre, Stati Uniti, Unione europea e Giappone hanno riaggiornato i propri piani programmatici sulle sfide legate all’approvvigionamento e alla R&D di questi minerali strategici in una conferenza tenutasi a Bruxelles e che ha coinvolto il ministero dell’Economia, del commercio e dei trasporti giapponese, la Commissione europea e il dipartimento dell’Energia statunitense. Giunta alla sua nona edizione e destinata a tenere la sua decima edizione entro la fine dell’anno, la Trilateral EU-US-Japan Conference on Critical Materials rappresenta di fatto una manifestazione della volontà di coordinare i paesi coinvolti, nel framework della Trilaterale, per prevenire scenari come quello del 2010, quando la crisi delle terre rare e l’improvviso aumento dei prezzi di quest’ultime rivelarono al mondo come la Cina potesse fare uso geopolitico delle sue risorse minerarie. 

Da circa un anno a questa parte, in America la questione è diventata sempre più di dominio pubblico, e che con ogni probabilità risulterà decisiva nello scrivere il futuro (e i rapporti di forza) dell’economia moderna. 

Questa consapevolezza di certo non manca ad alcuni senatori al Congresso, perlopiù repubblicani. Tra questi, Marco Rubio, senatore della Florida e membro dell’influente Senate Foreign Relations Committee. In un articolo apparso sulla rivista Foreign Policy nella giornata di mercoledì, il senatore repubblicano ha preso di petto una questione che da mesi anima i policymaker americani. “Questi metalli rari, come il neodimio e il disprosio, alimentano tutto, dagli hard drives dei computer fino ai missili intelligenti utilizzati per difendere la nostra nazione. Gli Stati Uniti ne hanno storicamente dominato la produzione, ma ora siamo dipendenti dalla Cina che ha stabilito un quasi monopolio sull’industria estrattiva e produttiva grazie a decenni di accurata pianificazione. Ciò rappresenta una crescente minaccia alla sicurezza nazionale e una vulnerabilità per l’economia americana”. 

Nonostante una serie di proposte e di iniziative, sia a livello esecutivo che legislativo, per cercare di affrontare questa realtà, Rubio ha rimarcato la sostanziale “assenza di un consenso sulle policy al Congresso”. A Capital Hill, infatti, nell’ultimo decennio, non sono mancate le idee, ma con risultati scoraggianti. 

Le numerose proposte presentate al Senato e alla Camera dei rappresentanti, dal Restart Act nel 2010, passando per il Critical Minerals Act l’anno successivo, non hanno mai guadagnato terreno, cadendo nel dimenticatoio. A livello delle agenzie federali, il dipartimento dell’Energia aveva reagito con la Critical Materials Strategy nel 2010, implementata nel 2019 dal dipartimento del Commercio con la Federal Strategy to Ensure Secure and Reliable Supplies of Critical Materials. Linee guida che hanno offerto alcune proposte di policy e affrontato alcuni aspetti, ma senza toccare il nocciolo della questione: le importanti barriere all’investimento privato in un settore caratterizzato da un’elevata volatilità e sottoposto a una serie di rischi (tecnologici, ambientali e politici). 

L’ultima proposta legislativa, presentata dal senatore Ted Cruz lo scorso mese, si era posta l’obiettivo di agevolare, con incentivi e sgravi fiscali, l’attività delle aziende del settore minerario. Recentemente anche il dipartimento della Difesa, attraverso l’ordine esecutivo controfirmato dal presidente Donald Trump lo scorso luglio, ha intrapreso alcune iniziative per finanziare nuovi progetti, al fine di garantire una supply chain sicura di importanti materiali e componenti per l’industria militare. Un passo in questa direzione sembrava confermato con l’annuncio del Pentagono, a metà aprile, di una commessa a MP Materials, l’unica azienda operante sul suolo statunitense. Salvo poi tornare sui propri passi, dal momento che la compagnia californiana è al 9,9% di proprietà della cinese Shenghe Resources Holding Co. La diretta concorrente, l’australiana Lynas Corporation (la più grande azienda produttrice di terre rare fuori dalla Cina) ha invece dovuto vedersi congelare il finanziamento per via dell’opposizioni di alcuni senatori repubblicani, restii a finanziare una compagnia straniera. 

Questa serie di fallimenti, secondo il senatore della Florida, sono da attribuire ad un approccio business oriented che si scontra con la realtà: non esiste, al momento, un vero e proprio libero mercato delle terre rare. Questo perché, avendo monopolizzato le principali fasi di produzione e processazione, “la Cina ora detiene un controllo totale sui prezzi di questi minerali” potendo così “intraprendere azioni di rappresaglia contro eventuali attori americani che vogliano entrare in quest’industria cruciale”. 

Proprio per questo è necessario che gli Stati Uniti si assicurino una collaborazione nell’industria “per mitigare questa minaccia in modo che nessuna azienda possa essere bullizzata da Pechino”. In che modo? La tesi del senatore, che ha presentato il suo progetto con il RE-Coop 21st Century Manufacturing Act, è dunque quella avanzata anche da molti esperti nel settore. In un’approfondita analisi, Keith Johnson e Robbie Gramer hanno infatti sollevato alcuni dubbi sull’efficacia delle misure finora adottate, dal momento che incentivare soltanto l’apertura di nuovi siti d’estrazione e produzione nei settori upstream “rappresenta una soluzione di mercato ad un problema non di mercato”. Il motivo? Semplice: la Cina controlla la maggior parte dei processi di lavorazione. Dunque, come sintetizza efficacemente David Uren in una riflessione su The Strategist (Australian Strategic Policy Institute), “non ha senso produrre ossidi di terre rare non-cinesi se è poi necessario spedirli in Cina affinché siano trasformati in metalli e poi in magneti”. Di fatto, le filiere dal più alto valore aggiunto. Inoltre, come ha dimostrato il rifiuto del Pentagono, “l’ostacolo più grande” rimane quello che “i governi (occidentali, ndr) non sono tanto più inclini a sobbarcarsi i rischi finanziari rispetto al settore privato”. 

Ecco perché la proposta di Marco Rubio potrebbe rappresentare una svolta, perlomeno nel contesto statunitense. “Aiuterebbe le aziende americane che necessitano di questi minerali offrendo l’opportunità di investire in maniera coordinata sui processi di raffinazione e lavorazione, in modalità convenienti e condividendo i profitti”, con l’obiettivo di sviluppare “una supply chain delle terre rare robusta e integrata” e così contribuire al fine ultimo, “difendere, e in questo caso rivitalizzare, le industrie vitali per l’interesse nazionale”. 

Esistono comunque degli ostacoli ulteriori, perlopiù politici. L’estrazione dei metalli rari è un’attività fortemente invasiva e pericolosa per l’ambiente, dal momento che l’estrazione e le fasi di raffinazione richiedono l’ingente utilizzo di agenti chimici. Negli Stati Uniti, l’industria mineraria è in parte collassata per le stringenti regolamentazioni ambientali degli anni Novanta che resero l’attività fortemente fuori mercato rispetto al contesto cinese. Oggi, come riporta il Washington Examiner, i democratici (soprattutto l’ala più ambientalista) sono critici di un possibile revival dell’industria mineraria sul suolo americano, e dunque rimangono uno scoglio per un consenso bipartisan al Congresso. 

La questione rimane aperta, su più fronti. Riusciranno gli Stati Uniti a costruire un’industria mineraria indipendente? Se sì, in che modo questo impatterà i rapporti con l’Europa, nell’ottica di contribuire a una governance globale congiunta dei minerali? Sullo sfondo rimane un’unica (e condivisa) preoccupazione: il monopolio cinese. Da limare, invece, le differenze di approcci che, per ora, paiono emergere dalle molteplici iniziative occidentali. 


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