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Cina, G7, Nato e Ue. Le tensioni Usa-Germania lette da Dassù e Alcaro

“Il G7 sopravviverà alla presidenza di Donald Trump?” si chiedeva pochi giorni fa Marta Dassù, senior advisor dell’Aspen Institute e direttore di Aspenia, in un editoriale su Repubblica. “Una domanda del genere non è campata per aria”, rispondeva. “Sul piano contingente, la distanza personale e politica fra Donald Trump e Angela Merkel crea una fonte di tensione difficile da superare. Al punto da mettere in discussione calendario ed agenda”, scriveva Dassù sottolineando come il G7 di Trump “è iscritto nella logica del ritorno alla competizione fra grandi potenze”. E ancora: “Per gran parte degli europei, e per la Germania anzitutto, è iscritto invece nella logica della concertazione necessaria fra democrazie occidentali per fare funzionare o in parte riscrivere le regole (economiche, politiche) di un sistema multilaterale sempre più sotto stress e messo a dura prova dal Covid 19. È una differenza importante di prospettiva. Senza trovare un nuovo punto di incontro, il G7, oltre che datato, sarà anche superato nei fatti”.

Ma la Germania di Angela Merkel e gli Stati Uniti di Donald Trump sono, se possibile, ancor più distanti. Infatti, dopo il rifiuto della cancelliera tedesca (causa pandemia, ha spiegato Berlino) di partecipare al summit del G7 che il presidente statunitense avrebbe voluto ospitare a Washington questo mese e che ha dovuto rinviare a settembre, in queste ore si è consumato l’ultimo strappo.

Come ricostruito da Formiche.net, infatti, la Casa Bianca ha ordinato al Pentagono di ritirare dal territorio tedesco all’incirca 9.500 unità, ridimensionando in modo importante la presenza nel Paese. Pesano, oltre al rifiuto della Merkel di partecipare a un G7 dal sapore molto (per lei probabilmente troppo) anticinese, le insoddisfazioni degli Stati Uniti per l’impegno della Germania al 2% del Pil da spendere in Difesa e il dibattito al Bundestag sulla partecipazione al sistema di dissuasione nucleare della Nato. Rimane da capire come l’ordine del presidente Trump verrà accolto dal Pentagono, dove sono molti gli scettici verso un indebolimento dei rapporti con le controparti tedesche e dove la posizione del segretario alla Difesa Mark Esper è sempre più in bilico dopo le distanze prese rispetto alla linea dura del presidente sulle proteste in corso negli Stati Uniti per la morte di George Floyd.

IL GAS DELLA DISCORDIA

A dividere ulteriormente Berlino e Washington c’è la questione energetica. Infatti, la Reuters ha rivelato che la prossima settimana arriverà al Senato statunitense un disegno di legge per ampliare le sanzioni sul Nord Stream 2, che secondo Washington rappresenta un’ulteriore minaccia per la sicurezza energetica dell’Europa visto il ruolo del colosso del gas russo Gazprom.

I VUOTI DIPLOMATICI

Meno visibile ma forse ancor più rivelatore dello scontro tra Stati Uniti e Germania è il tema diplomatico. Sia a Berlino sia a Bruxelles, infatti, Washington ha rappresentanti temporanei. Dopo il passo indietro di Richard Grenell (l’ambasciatore supertrumpiano che molto ha lavorato a Berlino su dossier cruciali come Iran e Russia), a guidare l’ambasciata statunitense in Germania ora c’è l’incaricata d’affari Robin S. Quinville, che dal luglio 2018 era vicecapo missione nella capitale tedesca. Attuale numero uno della rappresentanza statunitense presso l’Unione europea, invece, è Ronald Gidwitz, che ha sommato al suo ruolo di ambasciatore in Belgio l’interim a Bruxelles per sopperire all’uscita di scena di Gordon Sondland, cacciato dal presidente a febbraio, due giorni dopo la conclusione del processo di impeachment al quale aveva preso parte in qualità di testimone.

Si tratta, in particolare nel caso di Grenell, di due uscite di scena che probabilmente avranno reso felici Berlino e Bruxelles dato il peso specifico dei due diplomatici. Ma in entrambi i casi l’amministrazione Trump ha preferito gestire il vuoto con soluzioni interne evitando così di procedere a nuove nomine. Il che sembra dimostrare il sospetto che scrive oggi Politico Europe (che pochi giorni fa pubblicava un’analisi dal titolo “La strategia di Trump per l’Europa: niente”), che si chiede se “le sedie vuote” a stelle e strisce nel Vecchio continente non “dimostrino che l’Europa sia una priorità minore per l’amministrazione Trump”.

L’EUROPA IN MEZZO

“Temo sarà estremamente difficile trovare una posizione comune forte all’interno dell’Unione europea sulla Cina”, spiega Riccardo Alcaro, coordinatore delle ricerche e responsabile del programma Attori globali dell’Istituto Affari Internazionali, a Formiche.net. Ecco le sue: “L’accresciuto antagonismo tra Cina e Stati Uniti ma anche il fatto che la Cina di oggi, agli occhi di molti nel Vecchio continente, non è la Cina di gennaio, già cambiata rispetto a quella di tre o quattro anni fa. A inizio 2019, la Commissione europea definiva la Cina partner economico ma anche rivale sistemico per quanto riguarda la governance. Non credo che oggi siamo arrivati a una rivalità geopolitica ma l’elemento sistemico è accresciuto notevolmente anche a causa della mask diplomacy in Europa che si è ritorta contro Pechino. Basti pensare alle polemiche scoppiate in Francia”. 

Secondo Alcaro “la cancelliera Merkel, che ha sempre una visione di lungo periodo, in questo caso, sta cercando di limitare antagonismo con la Cina nonostante i suoi margini si siano ridotti a causa dello scontro tra le due superpotenze. Così si spiega il suo wait and see senza fughe in avanti e la sua risposta alla crisi di Hong Kong”. L’ascesa della Cina è inevitabile quanto la sua potenza innegabile, è questa l’idea della Merkel, spiega ancora Alcaro. “Per questo, sta cercando di impostare il confronto in termini sulla scia degli ex presidenti statunitensi Richard Nixon e Jimmy Carter, soprattutto il secondo. L’intento dell’asse con la Cina del primo era in chiave antisovietica. Il secondo aggiunse una postilla fondamentale alla dottrina nixoniana: la relazione sinoamericana non può essere limitata all’ostilità verso l’Unione sovietica ma serve creare pilastri di dialogo costruttivo che sostengano un rapporto con un enorme carico di differenze e potenziali conflittualità. È la strada seguita da tutti i presidenti successivi, fino a Trump”.

LA SOLUZIONE TRANSATLANTICA?

Infine, Alcaro è convinto che “un rilancio massiccio della relazione transatlantica attraverso la Nato ma anche un pieno e totale sostegno a una maggiore integrazione europea potrebbe garantire agli Stati Uniti un’Europa più autonomia e argine dell’influenza cinese evitando anche che la sfida con Pechino discenda in una conflittualità più profonda”. Un’ipotesi, però, che “sembra ormai fuori dal tavolo del presidente Trump”, conclude l’esperto dello Iai.


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