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Presidenziali, Russiagate e il piano dei clintoniani. L’analisi di Pellicciari

Hanno destato una certa sorpresa recenti dichiarazioni provenienti dal campo democratico degli Usa che per i loro toni rimandano al periodo del Russiagate più duro e puro, che pareva oramai superato durante il Covid-19.

Tra i più marcati quello di Victoria Nuland con un lungo articolo su Foreign Affairs dove il titolo la dice già tutta (Pinning Down Putin) oppure l’uscita di Susan Rice che ha ipotizzato una regia russa dietro alle degenerazioni (saccheggi e vandalismi) delle proteste razziali americane per l’omicidio di George Floyd.

Per la verità, se paragonato al passato, il loro eco è stato abbastanza contenuto sia negli States che nel resto del mondo Occidentale di riferimento e pure a Mosca le tradizionali smentite sarcastiche della portavoce degli esteri, Maria Zaharova, sono partite in regime di auto-pilota, leggermente riadattate per l’occasione.

Gli alti attori della politica estera russa in genere coinvolti a ribattere con toni più diplomatici, come Konstantin Kosachev, non si sono curati più di tanto della polemica, come se la cosa non li sorprendesse e riguardasse.

Di questi tempi, infatti, a tenere banco è il palese riavvicinamento tra Washington e Mosca, simboleggiato al meglio dall’inedito scambio reciproco di aiuti durante l’emergenza del Covid-19.

A tal punto che, a fronte del crescente scontro tra Usa e Cina, il Cremlino pare nella posizione di potersi avvantaggiare di una politica del doppio forno, sulla cui riuscita però nella stessa Russia si nutrono dubbi, come avvertono due pezzi da novanta come Sergey Karaganov e Andrej Kortunov.

Senza entrare nel merito delle dichiarazioni di Nuland e Rice (una riafferma una classica posizione “programmatica” dell’amministrazione Obama; l’altra rivolge accuse dove i reali riscontri, se esistono, emergono a distanza di anni) è bene chiedersi se esiste una motivazione politica per la loro uscita adesso e, se del caso, quale sia l’obiettivo a cui puntano.

Infatti, più che per i loro contenuti, esse sorprendono per essere riapparse – dopo un relativo periodo di silenzio – a pochi mesi dalle elezioni presidenziali Usa, come a volere rimarcare una precisa posizione e mandare un messaggio più rivolto all’interno che al contesto internazionale.

È uno dei dati assodati che tra i motivi della vittoria di Trump prima e, poi, del suo progressivo affrancarsi come leader (difficile e imprevedibile sì, ma non “matto“ come si provava a farlo passare all’inizio) c’è un forte scontro interno al Partito Democratico americano.

Che pare non ancora risolto e al cui andamento le dichiarazioni di Nuland e Rice potrebbero essere ricollegate.

Vero o esagerato che sia, è innegabile che il Russiagate sia servito in questi anni a rinviare sine die tra i democratici americani un’analisi del voto delle presidenziali che ammetta la verità più scomoda per la forte componente centrista-clintoniana nel partito. Ovvero che il principale motivo della sconfitta sia stato proprio l’intestardirsi sulla candidatura di Hillary.

Di recente, come già anticipato su queste pagine, il Russiagate ha perso appeal nel campo democratico sia in seguito a una serie di sviluppi giudiziari che lo hanno sgonfiato (dalla scontata mancanza di elementi nel Mueller Report alla clamorosa caduta delle accuse contro Michael Flynn per i suoi rapporti con l’ambasciatore Russo Sergey Kislyak) che alla scelta dei candidati in corsa per la nomination di non impugnare più quella che doveva essere una smoking gun e si è rivelata invece una pistola ad acqua.

Tanto che l’attacco a Trump passa ora per l’Ukrainegate, su cui il libro in uscita di John Bolton promette di dare importanti rivelazioni (con il presidente americano accusato di avere vincolato una serie di aiuti a Kiev alla richiesta, rivolta al presidente Volodymyr Zelenskyj, di mettere sotto indagine Joe Biden – in una trama dove però il ruolo di Mosca scompare).

Una chiave di lettura delle dichiarazioni di Nuland e Rice potrebbe quindi rimandare alla corsa presidenziale Usa e a un aspetto in apparenza secondario ma che è la vera incognita nel campo democratico, su cui si sta svolgendo un notevole scontro sotto traccia.  Ovvero la scelta del candidato vice-presidente da affiancare alla nomination oramai scontata di Biden.

Il richiamo al Russiagate duro e puro potrebbe servire a serrare le fila alla componente dei centristi-clintoniani nel partito riproponendo un loro cavallo di battaglia identificativo e servito già in passato a tutti i livelli per relegare in secondo piano molti progressisti americani specialisti di questioni russe ma fautori di un dialogo dinamico con Mosca (come ad esempio l’ex-corrispondente capo Cnn da Mosca, Jill Dougherty, una delle massime esperte americane di politica e cultura russa).

L’obiettivo politico ultimo di questa chiamata all’adunata sarebbe il provare a condizionare la scelta del VP di Sleepy Joe (così lo ha ribattezzato Trump), che, per inciso, secondo molti avrebbe dovuto essere già candidato nel 2016 se non fosse stato per la determinazione dei centristi a imporre Hillary. Né si tratta qui, per loro, di dovere imparare dagli errori del passato.

Per la regola politica machiavellica per cui è meglio essere a capo di una formazione perdente che minoranza in una vincente, influenzare la scelta del vicepresidente serve prima di tutto ai centristi-clintoniani per riaffermare il proprio peso nel partito.

Se poi si dovesse vincere anche la corsa presidenziale, tanto meglio, considerando che è anagraficamente improbabile un eventuale secondo mandato di Biden, se non addirittura, azzardano alcuni, la fine stessa del primo a causa di dimissioni anticipate, “pilotate” dallo stesso partito.

Potrebbe essere l’opportunità per i democratici tutti di fare entrare dalla finestra della Casa Bianca (visto che la porta del partito è bloccata) quel nuovo leader attorno al quale riunificare una compagine che, ancora inchiodata sugli anziani Biden, Bernie Sanders, Nancy Pelosi etc., è incapace di trovare tra le nuove leve (troppo estremiste e fragili) un giovane John Kennedy, Bill Clinton o Barack Obama per aprire una nuova legacy e tornare perno del sistema politico.

In tutto questo, davanti al ritorno dei toni del Russiagate, per l’analista resta assordante il continuo lungo silenzio sulla tutta la vicenda del moderato John Kerry, ultimo Segretario di Stato Usa democratico e forse l’uomo dell’amministrazione Obama capace di avere i migliori rapporti con Mosca (e a coltivare un rapporto di stima e reciproca fiducia personale con l’omologo Sergey Lavrov).

Se alla Nuland, consorte del noto ideologo neoconservatore Robert Kagan e all’epoca vice di Kerry allo State Department, viene attribuita la co-responsabilità della radicalizzazione della crisi ucraina (memorabile il suo “F**k the EU” attribuitole in una intercettazione, ovviamente russa), è per l’instancabile collaborazione Kerry-Lavrov che all’epoca non si è scivolati in uno scontro bellico diretto frontale Usa-Russia su larga scala.

A tal punto che in molti nel Cremlino (a partire pare da Vladimir Putin) si sono a posteriori pentiti di avere dato nelle presidenziali Usa del lontano 2004 un open endorsement a George W. Bush in corsa per un secondo mandato alla Casa Bianca e sfidato all’epoca proprio da Kerry.

Nell’occasione, quasi giustificandosi, un Putin ancora piuttosto debole nel contesto russo, disse che non vi era nulla di strano in quel sostegno, poiché il Cremlino non ama cambiare interlocutori istituzionali e che, nonostante i dissidi in essere, è normale che sostenga un presidente uscente che già conosce.

Col senno di poi, si dice oggi a Mosca e Washington, una presidenza Kerry sarebbe stata tutta un’altra storia. Non solo nelle relazioni Usa- Russia.

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