Skip to main content

Vi racconto la battaglia degli operai al tempo della pandemia. Il punto di Paolo Pirani (Uiltec)

Nei giorni più funesti e dolorosi del coronavirus a marzo si è dedicata assai poca attenzione a quello che è stato un vero e proprio scontro sociale che ha visto come protagonisti gli operai dal Nord al Sud del Paese in difesa del diritto inalienabile a tutelare la propria salute. Scioperi e slogan hanno sostenuto questa “rivolta” degli operai come non si vedeva da tempo. Gli slogan in particolare sono da sempre il segnale d’allarme più eloquente: “non siamo sacrificabili”, “mettono il profitto davanti alla salute”, “Non siamo carne da macello”.

Ed è la stessa graffiante rabbia di quella enorme massa di lavoratrici e lavoratori in lotta che anticipò lo Statuto dei diritti dei lavoratori cinquanta anni fa. Le “cure” anestetiche di governo e Confindustria non hanno sortito effetto. La presunta priorità attribuita a prescindere alla produzione, essenziale e non, affermata dalle pressioni confindustriali in modo spesso cinico, è stata ridimensionata prima ancora che dagli accordi intervenuti fra governo e organizzazioni sindacali, preceduti da vibranti lotte di operai metalmeccanici, chimici e di altre numerose categorie sia pure in ordine sparso sul territorio.

La protesta operaia ha ripreso velocemente vigore. Ed era perfino scontato anche perché erano i più esposti visto che gli impiegati privati e buona parte della Pubblica amministrazione hanno potuto usufruire dello smart warking. Ma ciò che è accaduto va ben oltre la constatazione di una volontà di non piegarsi ad una sorta di pensiero unico, quello del capitalismo degli algoritmi, quello che con le grandi multinazionali della globalizzazione mira a soddisfare i bisogni non essenziali ancora prima di quelli necessari, senza contraddittorio, senza alcun rispetto per i diritti fondamentali del lavoratore. E quello della salute lo è.

In tal modo si è sollevata, con le agitazioni operaie e la posizione intransigente del sindacato, la coltre di ipocriti proclami tesi a spegnere le proteste adducendo il rischio che fermando le produzioni si sarebbero provocati danni irreparabili all’economia. Si è inveito contro la disobbedienza operaia che poteva tagliare fuori il nostro apparato industriale dalle catene internazionali della produzione.

Un muro che scioperi e proteste hanno abbattuto mostrando la realtà del lavoro in fabbrica: ovvero che in questi anni fra le “trasformazioni” della produzione vi era stato anche l’abbandono irresponsabile di tanti ambienti lavorativi dal punto di vista sanitario soprattutto nella miriade di piccole imprese. E si voleva continuare a produrre in quelle condizioni incivili durante la fase di esplosione del virus; quando, per ricordare cosa è avvenuto, non di rado mancava perfino il sapone nei bagni per non parlare di mascherine, guanti ed igienizzanti. Ed è a questo stato di cose che si è opposta la protesta operaia, esplosa definitivamente dopo l’11 marzo, giorno nel quale il presidente del Consiglio annunciava la “chiusura” quasi totale del Paese…tranne che le fabbriche.

Ovvio il plauso confindustriale, ma anche ovvio che quella ambiguità non poteva e non doveva prevalere. Ma è stata vana anche la “caccia” ai sindacati colpevoli di aver prestato attenzione e sostegno a scioperi e proteste, quasi che il dovere di raccogliere le preoccupazioni, le ansie, le paure di tante tute blu fosse invece un modo per istigare la sollevazione operaia. Ma le organizzazioni sindacali avevano antenne nei luoghi di lavoro che governo e politica (quest’ultima davvero troppo indifferente…) non possedevano: i delegati che a loro volta erano pressati giustamente dai lavoratori.

Questo esile strato di rappresentanza, va dato loro atto, è riuscito a capire rapidamente quello che imprenditori e manager non erano stati in grado di percepire: giungere nel più breve tempo possibile ad accordi che garantissero davvero il rispetto della salute in fabbrica in una situazione di grande emergenza dove si rischiava la vita propria e quella di coloro che erano rimasti a casa.
Riemerge dopo anni dunque, accanto alla protesta operaia, anche il ruolo del delegato alla sicurezza, troppe volte “svilito” da una precedente legislazione permissiva nei riguardi delle imprese e stoltamente liberista nel ridurre i controlli considerati come un orpello burocratico e nulla di più.

Ed anche questa – il legame rinsaldato fra delegati e base operaia – è una novità interessante che si afferma fra l’altro proprio nel periodo nel quale viene celebrato lo Statuto dei lavoratori. Diciamolo: al di là di generiche dichiarazioni ufficiali, forse è stato proprio questo ruolo incisivo e decisivo del delegato alla sicurezza a testimoniare la validità dello Statuto nel quale è impresso l’impegno di Brodolini, di Giugni, di Donat Cattin e di migliaia e migliaia di lavoratori in lotta nell’autunno caldo.

Nel frattempo il 22 ed il 25 marzo il governo, dopo un serrato confronto con i sindacati, tramite i soliti Dpcm correva ai ripari ma lasciando ancora larghe maglie nei divieti, come il possibile ricorso alla autocertificazione delle aziende per dimostrare che svolgevano attività necessarie per le filiere fondamentali della produzione. Un provvedimento che finiva per non sollevare di certo la condizione di coloro che lavorano in piccole realtà produttive, negli appalti, nel microcosmo sterminato di microimprese dove è di casa il lavoro nero, quello comunque irregolare e precario.

Là dove magari si è tentato di organizzarsi sul piano sanitario, vuoi per buon senso di piccoli imprenditori che per timore di controlli puntualmente… non arrivati. Ecco perché, però, ha avuto un grande valore la sostanza degli accordi stipulati dalle forze sindacali per impedire anche in questo frangente drammatico che il mondo del lavoro si spaccasse in uno tutelato, quello sindacalizzato, ed in un altro invece assai poco protetto e sul quale non arrivavano i riflettori delle Istituzioni preposte ai controlli.

Presto per tirare delle conclusioni. Abbiamo di fronte mesi che si preannunciano molto duri. Va detto però che la vitalità della protesta operaia va considerata un valore molto positivo e non solo perché ha mandato in frantumi il cosiddetto “pensiero unico” economico sostenuto dalla rivoluzione digitale. Non va sminuito, non va archiviato, non va rimosso nella melassa dello “stiamo uniti”, né considerato il frutto di una esasperazione contingente. Basti pensare a ciò che è intervenuto dopo la sua esplosione: intese sulla organizzazione del lavoro, sui tempi, sugli orari, sulla condizione sanitaria ed ambientale.

Una protesta che è diventata proposta utile e concreta. Ha prodotto risultati importanti, anche in relazione al contenimento della diffusione del virus. Ha dimostrato insomma che quando si tratta di difendere scelte generali di civiltà…le tute blu tornano a farsi sentire. Non sono archeologia industriale, sono protagonisti dei quali non si deve fare a meno.


×

Iscriviti alla newsletter