La tassazione delle attività di imprese multinazionali del web è da molto tempo un tema al centro del dibattito politico internazionale. Nello specifico, per le cosiddette imprese over-the-top e per tutte le piattaforme di servizi basati sull’utilizzo della rete, è sempre più popolare tra le forze politiche, gli interessi organizzati e l’opinione pubblica, la richiesta di una tassazione specifica – una cosiddetta web tax – che secondo i sostenitori dovrebbe compensare il ridotto carico fiscale che tali imprese sosterrebbero grazie alla capacità di eludere l’imposizione fiscale nei Paesi dove operano e generano reddito.
Tale ragionamento si basa sostanzialmente su due assunti, entrambi a mio parere controversi. Il primo è che esista una specificità dell’economia digitale, che la distingue dai settori più tradizionali – tale dunque da giustificare una tassazione dedicata. In realtà, è sempre più evidente come non esista più un’economia digitale distinta da un’economia non digitale, perché le tecnologie digitali sono sempre più una modalità e non un mondo a sé. Dalla prenotazione di un biglietto aereo alla spesa a casa, dall’abbonamento a Netflix fino alle videoconferenze e al lavoro a distanza, la nostra vita fisica è innervata con il digitale in modo ormai inscindibile. Più che di “economia digitale”; si dovrebbe oggi parlare di “digitalizzazione dell’economia”. Il secondo assunto è che alle multinazionali del web dovrebbe applicarsi un principio che non viene applicato a nessun’altra realtà: il computo del reddito d’impresa nel Paese di consumo del loro servizio e non di produzione. Nessuno ritiene che un’azienda italiana produttrice di vino debba pagare le imposte sul reddito in America, se vende lì una quota rilevante delle proprie bottiglie. Per il web, invece, si tende a credere che l’imposizione del reddito debba basarsi sul luogo del consumo e si considera iniquo che ciò non avvenga. Poco si parla del fatto che, come qualsiasi tassazione, essa finirà per scaricarsi direttamente o indirettamente sui consumatori, in termini di maggiori prezzi o di minori servizi. Insomma, si tratta di un tema in chiaroscuro su cui è prudente non avere certezze.
Disquisizioni teoriche a parte, il tema della web tax è tornato cruciale dopo che gli Stati Uniti hanno abbandonato un tavolo negoziale con l’Unione europea, minacciando peraltro ritorsioni nel caso in cui l’Ue decida di procedere unilateralmente, cosa che da Bruxelles sembrano intenzionati a fare. È evidente che la dimensione europea è la minima possibile per ridisegnare il sistema fiscale e prevedere una tassazione speciale per le imprese del web, ma è altrettanto chiaro che in questa fase storica l’apertura di una guerra commerciale con gli Stati Uniti è un rischio che nessuno può pensare di correre. La mossa statunitense è stata certamente influenzata dall’imminenza delle elezioni presidenziali del prossimo novembre, ma è anche un segnale del fatto che difficilmente gli Stati Uniti possono accettare un negoziato in cui sostanzialmente si chiede di trasferire reddito dagli Stati Uniti all’Europa senza compensazioni, tanto più quando le distanze regolatorie tra i due blocchi continentali sembrano essersi esasperate anche su fronti diversi da quello fiscale, come la protezione dei dati e la tutela del copyright. Perché i negoziati con gli Usa riprendano, è probabilmente opportuno che essi prendano la forma di uno scambio e di un mutuo interesse, magari negoziando contemporaneamente la questione della tassazione digitale con altre questioni commerciali rilevanti, ad esempio in campo biotecnologico o farmaceutico.
Anche limitandosi al bacino europeo, una web tax che tassi i profitti nel luogo del consumo del servizio e non in quello in cui ha sede la società (spesso in uno dei Paesi Ue a più bassa tassazione) avrà bisogno di una compensazione politica e fiscale per quelle realtà e di un approccio non banalmente redistributivo. Perché mai l’Irlanda o il Lussemburgo dovrebbero alzare la tassazione del reddito d’impresa a livello italiano o tedesco? Per arrivare a un risultato accettabile per tutti, occorre un salto di qualità “federale” nell’intero disegno comunitario: da un lato, con l’introduzione di un livello federale di tassazione sulle imprese multinazionali che finanzi investimenti pubblici paneuropei; dall’altro lato, con l’omogenizzazione delle basi imponibili per la tassazione statale, magari lasciando i singoli Paesi liberi di fissare le aliquote per proteggere una concorrenza virtuosa.
È plausibile arrivarci? In una fase storica in cui gli Stati e la stessa Unione europea hanno una tremenda sete di risorse, quella della web tax sembra il boccone più succoso dal quale generare gettito. Eppure, analizzandolo in profondità, vengono alla luce questioni ed ostacoli particolarmente rilevanti, che meritano un confronto politico che superi lo stadio della propaganda e dei pregiudizi ideologici per abbracciare il campo – molto complesso – dell’efficienza, dell’innovazione e della tutela della concorrenza e dei consumatori