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Cara Italia, la democrazia conta più del business. L’appello per Hong Kong di Law

È fuggito da poco, e non è l’unico. Nathan Law lo ripete di continuo, con fare guardingo: “Non posso dare informazioni sui miei spostamenti, è pericoloso”. Fondatore e già presidente del partito Demosisto, movimento leader delle proteste guidato fino a pochi giorni fa da Joshua Wong, Law, ventisette anni, è uno dei volti più illustri delle manifestazioni contro le interferenze del governo centrale cinese fin dai tempi della “Rivolta degli ombrelli”.

Eletto come più giovane rappresentante del Consiglio legislativo di Hong Kong all’età di 23 anni, ha dovuto lasciare il suo scranno parlamentare per un ordine arbitrario delle autorità. Da poche ora ha abbandonato il suo “Porto Profumato”, perché, confida a Formiche.net, “adesso è il modo migliore per aiutare la causa”.

La nuova legge sulla Sicurezza nazionale cinese è diventata realtà. Da ora in poi, tutto cambia. Chi viola la legge, anche solo se tacciato di “sovversione”, può finire processato nella Mainland China, la Cina continentale.

“Centinaia di attivisti sono già scappati a Taiwan o in altri Paesi limitrofi, non sono il primo. Abbiamo il compito fondamentale di raccontare la verità su quello che sta accadendo a Hong Kong. L’obiettivo della legge sulla sicurezza nazionale è il contrario: mettere in ginocchio l’ala internazionale del movimento, impedire di avere accesso ai media esteri, processarci per collusione con forze esterne”.

“Stanno guardando uno ad uno i passaporti – racconta Law – cercano ogni pretesto per portarci di fronte a un tribunale, fosse anche solo per aver parlato male delle autorità”. L’attivista garantisce: “continueremo a lottare”. È un monito per chi ha letto nelle dimissioni sue, di Wong e di Agnes Chow da Demosisto un passo indietro, “non è così”.

La missione internazionale è tutt’altro che una fuga, spiega Law, da sempre tra i frontrunner della causa democratica all’estero (quest’anno era ospite al discorso sullo “State of the Union” del presidente americano Donald Trump). “Ci sono diversi Paesi, come Stati Uniti, Australia, Regno Unito, che hanno già riconosciuto la gravità della situazione e preso l’iniziativa. Abbiamo bisogno oggi più che mai di un fronte internazionale unito”. Anche l’Italia è chiamata l’appello. “Sappiamo che ha legami solidi con la Cina. Ma di fronte alla violazione dei diritti umani il business e gli interessi commerciali non dovrebbero essere una priorità”. In ballo non c’è solo l’ex colonia britannica. “La prossima è Taiwan. Se Hong Kong cade, cade anche l’isola”.

Non saranno quegli interessi a fermare la stretta della Città Proibita su Hong Kong. “Ci sono tanti imprenditori che conosco di persona letteralmente terrorizzati, e pronti a lasciare la città. La preoccupazione attraversa l’intera comunità imprenditoriale. Ma ormai neanche questo preoccupa Pechino. Sanno anche loro di quest’esodo, lo ignorano e continueranno a farlo”.

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