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5G, occhio alle sanzioni Usa. Il bivio per l’Italia secondo Ian Bremmer

Non c’è più tempo. L’Italia deve dire ora da che parte sta nella Guerra fredda tech fra Cina e Stati Uniti. Ian Bremmer, presidente di Eurasia Group, professore alla New York University, non usa mezzi termini. Il tiro alla fune sulla rete 5G non ammette velleità terzaforziste, dice a Formiche.net. E le aziende italiane che fanno affari con Huawei, di questo passo, possono finire nel mirino delle sanzioni americane.

Bremmer, sul 5G gli europei sono costretti a scegliere fra Washington e Pechino?

Assolutamente sì. Di giorno in giorno aumenta la consapevolezza che, in Europa, non esiste una terza via. La dura verità è che ci si può solo allineare, l’indipendenza non è un’opzione. Gli europei lo hanno già capito nel braccio di ferro con la Silicon Valley. I francesi, i tedeschi inizialmente erano scettici delle soluzioni di contact tracing di Google e altri giganti tech. Hanno ipotizzato anche di trovare una soluzione alternativa, ma alla fine hanno scelto gli Stati Uniti.

Perché bisogna per forza schierarsi?

L’escalation nei rapporti fra Cina e Stati Uniti, da Hong Kong alla censura sul coronavirus, dai dazi al Mar cinese meridionale fino alla guerra tech, sta costringendo l’Europa a fare una scelta di campo. E, soprattutto nel terreno digitale, l’unica scelta sensata è stare con l’Occidente. Paesi come Canada, Regno Unito, Australia e Nuova Zelanda se ne sono resi conto.

Nell’occhio del ciclone c’è Huawei. Ci sono spazi di mediazione con la Casa Bianca?

Non credo, gli Stati Uniti non si fermeranno con Huawei. Avrà anche soluzioni più economiche e avanzate, ma, al momento, è una scommessa pericolosa per gli alleati degli americani. E chi pensa che a novembre qualcosa cambi si sbaglia.

Cioè?

Che vinca Trump o Biden, la guerra fredda tech con la Cina non si fermerà. E chiamerà in causa gli alleati in una partita che non ammette terze soluzioni. Fino a poco tempo fa, in Europa, sembrava avviata a un pareggio. Il Regno unito è stato il primo ad aderire alla Asian infrastructure investment bank, l’Italia il primo Paese G7 a firmare il memorandum per la Via della Seta. Adesso le cose stanno cambiando.

Come?

Lo abbiamo detto a inizio anno nel report di Eurasia Group: la guerra fredda tecnologica era candidata a svettare fra i rischi maggiori del 2020. Ci abbiamo preso, e il coronavirus ha accelerato questo processo.

Il decoupling non è più fantascienza?

Il decoupling è realtà. Si possono continuare a tenere aperti i confini, a concedere passaporti per gli studenti, a commerciare, ma quando si tratta di Intelligenza artificiale, big data e 5G la cooperazione è meno semplice. Non solo negli Stati Uniti. In Cina già oggi alcune delle più grandi compagnie al mondo come Google, Facebook, Twitter e Amazon non possono lavorare liberamente.

L’Italia ancora non si è espressa definitivamente sulla partita del 5G, anche se all’orizzonte sembra profilarsi una stretta sui provider cinesi. Cosa succede se non dovesse avvenire?

Al momento a Washington non c’è grande preoccupazione. Ma se fossero scelti fornitori cinesi ci potrebbero essere conseguenze. Non sarei sorpreso se alcune delle aziende italiane che fanno affari con Huawei e altre realtà legate al governo cinese finissero nel mirino di sanzioni secondarie del Tesoro americano.

Bremmer, Stati Uniti e Cina si parlano ancora, negoziano, dialogano. Siamo sicuri che l’escalation sia inevitabile?

Non farà che peggiorare. Hong Kong, Taiwan, dazi, guerra tech, restrizioni ai viaggi. Se diamo un’occhiata ai 20 dossier fondamentali nei rapporti fra Usa e Cina, almeno 18 sono finiti nell’escalation. Gli altri due ci finiranno presto.

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