Un’autorità delegata, ora, per seguire da vicino la rete 5G. Enrico Borghi non ci gira intorno: “Dobbiamo presidiare il tema, che è tecnico ma soprattutto politico”. Il deputato del Pd, membro del Copasir, saluta con soddisfazione la svolta filo-atlantica del Nazareno sulla rete di ultima generazione. Adesso l’esclusione dei fornitori cinesi accusati di spionaggio non è più una chimera. Purché ci sia anche un “dopo”. La creazione di un 5G europeo, e un sistema di intelligence economica che metta al sicuro preventivamente le infrastrutture critiche.
Borghi, Tim dice no a Huawei nella rete core del 5G. Partiamo da qui.
Gli operatori privati fanno scelte di natura industriale rispetto alle quali non entriamo nel merito. Detto questo, la scelta di Tim è notevole e segna una tappa importante in una partita che vede intrecciarsi ragioni di carattere economico e di natura geopolitica.
Il vento sta cambiando anche a Palazzo Chigi?
Sicuramente sta aumentando la consapevolezza della posta in gioco. Il tempismo non è casuale. Con il Recovery Fund il tema digitale torna in cima all’agenda politica, c’è la possibilità di studiare la realizzazione di un’infrastruttura 5G europea, la trasformazione delle città in smart cities, l’uso dei big data, dell’Intelligenza artificiale e l’Internet of things. Questa rivoluzione deve essere gestita in sicurezza.
Cioè?
L’innovazione è come un casello autostradale. Decidere a chi affidare il 5G è come decidere a chi far riscuotere il pedaggio e decretare chi entra e chi esce.
Il Pd deve farne una priorità?
Il Pd ne ha già fatto una priorità. In questi giorni la squadra di governo si è dimostrata in grado di garantire, alla luce della vocazione, della storia e della cultura del partito, un netto e chiaro posizionamento geopolitico del Paese. Lunedì presenteremo in aula una mozione sul tema delle tecnologie digitali, il Parlamento non può essere lasciato fuori.
Il cambio di passo arriva da Londra?
Più che da Londra, da Atene. L’accordo della greca Cosmote con Ericsson che ha di fatto tagliato fuori le cinesi Huawei e Zte è stato un primo, eloquente segnale. Tutto è iniziato in Grecia, un membro della Nato, ma anche un Paese con un’estesa infrastrutturazione cinese. Poi è arrivato Boris Johnson.
Che ora ci ripensa, e valuta un bando delle compagnie cinesi dalla rete.
Una conversione a 180 gradi. Aveva iniziato questa partita immaginando una postura imperiale. Con il tempo si è reso conto che, nonostante la Brexit, il Regno Unito è ancora un caposaldo dell’asse euro-atlantico. Noi, consci del nostro peso specifico, non ci siamo mai spinti troppo avanti, e adesso non dobbiamo dare un “contrordine compagni”. Ora è il momento di pensare a una soluzione europea
Cioè, un 5G made in Ue?
A dispetto delle apparenze, non servono dotazioni impensabili. Ci sono diversi operatori in campo, in Europa i principali sono Nokia ed Ericsson. Gli Stati Ue possono e devono mettere a disposizione risorse per consentire ai campioni del mercato di elaborare tecnologie conformi ai nostri standard di vita. Con le risorse in arrivo dal Recovery Fund il gap di competitività da colmare è irrisorio, basta una frazione del nostro Decreto rilancio.
Torna lo Stato imprenditore?
Mettiamola così: stiamo vivendo una nuova stagione in cui sta nascendo un nuovo sistema-Paese. Dobbiamo trovare una via mediana fra un mercato abbandonato a se stesso e la statalizzazione di operatori e infrastrutture, due soluzioni relegate al passato.
Poi?
È il momento di affrontare il tema in una prospettiva di sistema, come già succede in altri Paesi, penso alla Francia, che hanno sezioni di intelligence dedicate in maniera esclusiva all’economia. I tempi sono maturi per una revisione della legge 124.
Un’autorità delegata?
Questi temi devono essere presidiati in maniera costante e coerente. Un presidio politico, perché sul 5G e sulla sicurezza delle nuove tecnologie serve omogeneità di indirizzo. Ora spetta al premier decidere.