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5G cinese, perché Roma deve seguire Londra. Lo spiega Zennaro (Copasir)

Bando ai tecnicismi. La sicurezza del 5G è un affare politico, e la politica deve occuparsene. Mentre il dibattito torna bollente dentro e fuori le stanze del governo, Antonio Zennaro, deputato del Copasir e di Popolo Protagonista, suona la sveglia e a Formiche.net dice: “C’è in ballo la nostra politica industriale. Meglio arrivare in ritardo, ma in autonomia, che optare per una rapida dipendenza”.

Zennaro, questo l’avete già detto nel vostro rapporto del Copasir di dicembre.

Noi abbiamo dato un segnale netto, sulla base di evidenze. Al di là dei tecnicismi, bisogna prendere delle scelte politiche. Nel Regno Unito Boris Johnson l’ha capito, e ha deciso di optare per una scelta radicale, escludendo le aziende cinesi dalla rete. Così facendo punta al cuore della questione: l’indipendenza tecnologica dalla Cina. Adesso è il turno dell’Italia.

Cioè?

Il bivio è semplice: il Paese può essere qualche mese in anticipo sulla realizzazione del 5G, e rischiare di legarsi a doppio filo alla Cina, oppure accettare di essere qualche mese in ritardo, e puntare all’autonomia tecnologica. Visto quanto sta accadendo nel mondo, forse ha ragione il collega Enrico Borghi, è il momento di riconsiderare la presenza cinese nel mondo tech italiano.

Con quali soldi?

Sono in arrivo i fondi del Next generation Eu, dobbiamo decidere come usarli. È questo il momento di capire se vogliamo o meno un’infrastruttura 5G europea, atlantica. Ovviamente l’autonomia ha un prezzo. Il governo deve decidere, non può più girarci intorno.

Non le sembra un inno al protezionismo?

Non è protezionismo, è politica industriale, e difesa dell’interesse nazionale. Vale lo stesso per altri settori, come gli armamenti. Ha senso comprarli da un soggetto con cui siamo in concorrenza in termini politici? Acquistiamo i carri armati, le portaerei dalla Cina o da un Paese alleato? Come con il 5G, non parliamo di commodities qualsiasi.

In quali altri settori l’Italia e l’Europa devono fare da sé?

C’è un discorso di supply chain che troppo spesso passa in secondo piano, ora la pandemia ce lo ha messo di fronte. Sentiamo parlare di continuo di energie rinnovabili, e passaggio dal diesel all’elettrico nel settore automotive. Purtroppo ci si scorda che l’80% delle batterie delle auto sono prodotte in Cina. Anche la transizione ecologica pone un tema di dipendenza dall’estero che non può non essere affrontato. Quando il governo dice, “riconverto tutto”, deve tenere conto anche di questo elemento.

Torniamo al 5G. Quali sono le alternative ai cinesi?

Nel documento del Copasir abbiamo già espresso tutte le nostre riserve. L’alternativa è chiara: indirizzarsi verso fornitori di area Nato. Se esiste un gap tecnologico, è giusto lavorare per colmarlo insieme ad altri Paesi europei. A costo, ripeto, di correre il rischio di qualche mese di ritardo sulla tabella di marcia.

Basta il perimetro cyber, o serve un bando tout-court?

Con il Copasir abbiamo invitato a valutare tanti scenari, anche l’esclusione dalla rete. Non importa se due anni fa è stata fatta una gara miliardaria per assegnare le frequenze. La domanda è: ha senso incassare miliardi se poi si crea una dipendenza tecnologia nel medio-lungo termine da un Paese non alleato? È una domanda che si stanno ponendo tanti altri Paesi.

Ci sono prove di questi rischi per la sicurezza?

Ripeto, noi abbiamo scritto il report sulla base di informazioni sensibili che non possiamo rivelare. Ma oggi il tema è soprattutto politico. Alla luce di un certo risveglio europeo nelle ultime settimane sui rapporti con la Cina, anche l’Italia dovrebbe rivalutare la sua dipendenza politica e tecnologica da Pechino. È finito il tempo delle mezze verità. Inutile organizzare esercitazioni militari con la Nato se poi diamo le chiavi della nostra tecnologia alla Cina.

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