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Cosa c’è dietro l’accordo militare tra Siria e Iran. L’analisi di Valori

L’8 luglio ultimo scorso il Capo di S.M. iraniano Mohammad Baqeri e il ministro della Difesa siriano Ali Abdullah Ayub hanno siglato a Damasco un accordo, definito “comprensivo”, per rafforzare la cooperazione militare tra i due Paesi.

Tale accordo, dicono i due dirigenti, rafforza la cooperazione militare tra Iran e Siria, soprattutto in relazione all’aumento previsto della pressione Usa nell’area e, inoltre, l’Iran rafforzerà in particolare i sistemi di difesa aerea siriani, oltre al miglioramento dell’addestramento delle truppe e dell’armamento oggi a disposizione dei militari siriani.

Il 1 luglio, poi, Erdogan, Putin e Hassan Rouhani si sono incontrati, in videoconferenza, all’interno del cosiddetto “formato di Astana”, per regolare i propri rapporti all’interno del territorio siriano e per programmare, con l’esclusione degli Usa e di altri Paesi occidentali, un futuro trattato di Pace per la Siria.

Intanto, il premier israeliano ha affermato che “non permetteremo all’Iran di stabilire una sua presenza militare in Siria”. Scelta del tutto naturale, ma non crediamo che gli Usa, in una prospettiva di scontro militare limitato tra Israele e l’Iran, darebbero più di un aiuto simbolico allo stato ebraico.

Un dato strategico importante è che questo nuovo accordo mette in sordina la storica relazione tra Damasco e Mosca, sia dal punto di vista difensivo e tecnologico che da quello politico.

I russi hanno già reso operativi i loro missili Pantsir e gli S-300 presenti sul territorio siriano, ma corre voce, all’interno delle FF.AA. siriane, che tali sistemi d’arma non siano stati volutamente capaci di colpire le armi israeliane e i raid aerei di Gerusalemme.

La questione è chiara: Mosca non attiva i suoi S-300 perché non ha alcuna intenzione di colpire lo stato ebraico ma questo, ovviamente, non è certo nei piani di Damasco, che legge la minaccia aerea da parte di Israele come un pericolo esistenziale per lo stato siriano. E questo sarà il ruolo dell’Iran: colpire Israele dal territorio siriano o penetrare l’area israeliana con le proprie forze speciali.

Certo, il segnale di sganciamento parziale della Siria di Assad dalla Federazione Russa è significativo, anche se non appare determinante, visto che sia Mosca che Teheran appoggiano sempre la Siria.

Ma è un tentativo di “sostituzione” strategica che potrebbe avere effetti a lungo termine.

Peraltro, alcuni analisti russi notano come, anche nei momenti caldi della guerra tra Assad e i “ribelli” sostenuti dagli Occidentali, la presenza delle truppe iraniane sia stata scarsa, mentre venivano instradati da Teheran in Siria molti volontari sciiti, da varie zone, uomini dei Pasdaran e tanti consiglieri militari.

La presenza iraniana nella guerra di Siria non è mai stata massiccia ma, certamente, è ancora molto importante.

L’Iran, soprattutto, ha finanziato e addestrato i gruppi armati pro-Assad, ma il Presidente siriano oggi ha bisogno di far cessare, certo senza le remore russe, gli attacchi aerei israeliani, che colpiscono spesso aree dove operano anche i militari iraniani.

Certo, l’Iran ha inoltre subito vari danneggiamenti, dalle operazioni israeliane sulla Siria, delle proprie reti e sistemi nucleari.

Un incendio a Natanz, all’inizio di questo luglio, poi l’esplosione ad ovest di Teheran di pochi giorni fa, le ulteriori esplosioni a Garmdareh e Qods, poi il 26 giugno 2020, l’incendio in una fabbrica di missili a Khojr, poi un incendio a Shiraz, e ancora l’esplosione in una clinica medica il 30 giugno, con 19 vittime, ma anche un grande incendio, il 3 luglio, sempre a Shiraz, infine un incendio e una esplosione ad Ahwaz.

Una serie così razionale e ben scandita che indica come questi incidenti, spesso banalizzati dal governo iraniano e dalla sua propaganda, siano tutt’altro che casuali.

Ovviamente, si tratta comunque di luoghi importanti per il progetto nucleare iraniano: lo scoppio del 1 luglio ha colpito, per esempio, il Centro Iraniano per l’Assemblaggio Centrifughe dentro l’area di Natanz.

Tutti i tecnici del nucleare iraniano, anche quelli interni al progetto di Teheran, ipotizzano comunque un ritardo nella realizzazione dell’intero progetto di almeno uno o due anni.

Ma vediamo le date e i significati strategici del nucleare iraniano: nel maggio 2019 Hassan Rouhani annuncia che l’Iran si ritirerà unilateralmente ma progressivamente dal JCPOA, il Joint Comprehensive Plan of Action firmato dall’Iran nel 2015 insieme al P5+1, ovvero i cinque componenti permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU più la Germania e l’Unione Europea.

Washington, lo ricordiamo, era uscito dal JCPOA un anno prima, nel maggio 2018.

La “massima pressione possibile”, ovvero il massimo inasprimento delle sanzioni, annunciata da Washington nel momento della sua uscita dall’Accordo di Vienna, genera poco dopo alcune manifestazioni, a novembre, duramente represse dal regime iraniano, che lasceranno sul terreno ben 180 morti.

È probabile però che l’Iran, rompendo così stabilmente e sistematicamente l’accordo di Vienna del 2015, voglia segnalare non la costruzione della bomba nucleare, quanto una pressione sulla comunità internazionale per far cessare le sanzioni.

Prima il burro poi i cannoni, per usare una antica battuta.

Dove potrebbe poi lanciare Teheran la sua bomba N? Su Israele, che certo vuole “eliminare dalla carta geografica”, ma con il serissimo pericolo di una contro-operazione, sempre nucleare, di Gerusalemme contro i siti economici e militari più importanti e le città iraniane più popolose?

Oppure sull’Iraq, che è già a maggioranza sciita e ben controllato, oggi, dai Servizi di Teheran?

Oppure ancora contro l’Arabia Saudita? Ogni scelta astrattamente possibile ha molte più controindicazioni che valutazioni positive e razionali. Ma i decisori iraniani non sono dei folli, o dei minus habens.

Se comunque l’Iran riduce, come sembra fare oggi, ogni due mesi la propria compliance del JCPOA, allora Teheran avrà ben tre occasioni, da qui alle prossime elezioni Usa di novembre, di “indurire” il proprio sistema nucleare.

Il che avrà certo un effetto notevole sul dibattito politico e elettorale Usa. E sarà, anche questo, un effetto ben organizzato e razionalmente scelto da parte degli Ayatollah.

Ovviamente, il Presidente Trump dovrà rafforzare il sistema militare statunitense in Medio Oriente, cosa che non farà certo piacere a buona parte del suo elettorato, mentre l’Iran metterà in atto quella sua strategia “a isole” e sostanzialmente non-convenzionale (ma non nucleare, non ancora) che consisterà in attacchi alle petroliere negli Stretti di Hormuz e nel Golfo Persico, oppure di azioni “pesanti” dei Kataib Hezb’ollah in Iraq, di una probabile operazione nell’area sciita dell’Afghanistan, tale da mandare in fumo il peraltro tenuissimo accordo tra gli Usa e i Taliban del febbraio 2020, oppure di un rafforzamento della presenza dei “ribelli” sciiti Houthi, infine ancora una probabile operazione iraniana in Libano e, appunto, questo accordo tra Teheran e Damasco.

Il criterio iniziale di Teheran è quello della “pazienza strategica”.

Che non implica affatto l’esclusione dell’armamento N, ma riguarda l’uso delle sue forze convenzionali, mentre le armi N, solo in un estremo pericolo esistenziale per lo Stato, sarebbero lanciate o sull’aggressore e/o su Israele.

Dall’altro lato, la “pazienza strategica” di Teheran ha un ulteriore finalità: separare l’Ue dagli Usa e creare un corridoio economico tra l’Iran e alcune economie europee.

L’Ue, finora, non ha mostrato di saper reagire in modo autonomo alla politica Usa verso l’Iran, e sono passati due anni, e quindi Rouhani, con il discorso che abbiamo citato, è passato ad una strategia più “dura”.

E quindi il Presidente iraniano ha annunciato che Teheran continuerà ad allontanarsi dalle disposizioni del JCPOA, fino a quando gli altri firmatari dell’accordo di Vienna del 2015 non garantiranno l’accesso libero di Teheran al sistema finanziario mondiale e la libera vendita del petrolio iraniano.

Ovvero, ogni “indurimento” del regime degli Ayatollah sulla questione nucleare, sarà seguito da una possibile apertura ad hoc di Teheran ai mercati europei.

Se l’Ue sarà d’accordo con questo progetto, l’Iran bloccherà, dal quel momento in poi, la sua uscita dal JCPOA, altrimenti l’abbandono dell’accordo di Vienna proseguirà con il ritmo consueto.

Ma, fino a oggi, gli Usa hanno ulteriormente rafforzato il loro sistema di sanzioni, mentre l’Ue ha minacciato di dare inizio al sistema di risoluzione delle dispute contenuto nel JCPOA.

L’abbandono definitivo, da parte dell’Iran, dell’Accordo di Vienna si è quindi nuovamente materializzato, ma sia gli Usa che l’Ue, che ha la stessa politica estera di un nido di formiche, dovrebbero accorgersi che la minaccia non-N e N da parte di Teheran è terribilmente seria, e potrebbe colpire interessi primari di entrambe le aree occidentali.

E, soprattutto, c’è il ricatto a Israele, che è anch’esso terribilmente serio, anche se l’Iran dovesse immaginare una strategia N del tipo “Sansone”, la sua eliminazione insieme al nemico.

L’Ue è peraltro giustamente considerata, dallo stato ebraico, una sentina di antisemiti che non fa alcuna politica estera (e nemmeno i Paesi membri, ormai) mentre gli Usa pensano la loro politica estera, buona o cattiva che sia, per il tempo di una elezione di midterm, poi tutti a casa.

Israele ha invece una politica militare e strategica molto stabile, ma ha un inevitabile bisogno di alleati ugualmente stabili.

Non a caso, infatti, in questi ultimi due mesi l’Iran ha rafforzato non solo il progetto di uscita dal JCPOA, ma anche le varie operazioni militari convenzionali o dei suoi proxies nel grande Medio Oriente, si pensi qui alla cattura della petroliera britannica circa un anno fa, poi ai due tankers catturati, probabilmente dai Pasdaran, nel golfo di Oman nel giugno 2019, e anche alle numerose operazioni similari della Marina dei Guardiani della Rivoluzione.

Far sentire agli europei, soprattutto, il “peso” di essere in accordo con gli Usa per le sanzioni contro l’Iran, è l’idea di Teheran, e colpire le linee di rifornimento dei Paesi europei, guarda caso quelli più vicini alle posizioni Usa come la Gran Bretagna, per fargli capire che Teheran può fortemente danneggiarli senza ricorrere a una guerra, convenzionale o N.

La “linea” dei decisori iraniani è sostanzialmente ancora quella stabilita dall’Ayatollah Khamenei, di poco successivo al ritiro degli Usa dal JCPOA, che definisce due criteri di base: l’Iran continuerà a applicare l’Accordo di Vienna, anche se con ritmi molto rallentati, ma dall’altra parte Teheran si tiene pronta per una possibile sua uscita definitiva dal JCPOA.

È proprio questa la definizione migliore di “pazienza strategica”.

Peraltro, la posizione strategica del Presidente Trump è inesistente: cosa fanno gli Usa se l’Iran esce del tutto dal JCPOA? Altre sanzioni oltre quelle attuali? E’ difficile anche immaginarle.

E cosa farebbe invece l’Ue nel caso di una crisi, anche se solo convenzionale, che bloccasse l’afflusso di petrolio dal Golfo Persico?

E quali sarebbero, allora, le possibilità di una pressione politica seria e efficace su Teheran per far cessare le azioni (ripeto, convenzionali) dell’Iran, che potrebbero arrivare tranquillamente anche nel Mediterraneo orientale?

Per quel che riguarda la rottura “bimestrale” da parte dell’Iran del JCPOA, i dirigenti di Teheran hanno superato il limite prestabilito dall’Accordo di Vienna sulla produzione di acqua pesante, hanno tolto ogni limite alla ricerca per le centrifughe, e infatti quelle distrutte a Natanz erano di ultimo modello, infine hanno ricominciato l’arricchimento dell’uranio a Fordow; e tutto infatti sembra posto in atto, da parte di Teheran, per calibrare, lentamente ma inesorabilmente, la pressione sugli Usa e sugli inetti della Ue, mentre occorre anche ricordare che Fordow, per le sue caratteristiche geologiche, è molto difficile da eliminare con un attacco mirato.

Quali le prospettive strategiche iraniane durante la progressiva restrizione della validità del JCPOA? Attacchi missilistici sul territorio saudita, come peraltro è già avvenuto?

Se poi gli Usa dovessero togliere le sanzioni, allora Teheran avrebbe dimostrato che può vincere il “grande Satana” e le richieste da parte iraniana, soprattutto alla Ue, aumenterebbero. E riguarderebbero i rapporti tra Washington e Israele.

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