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Black Lives matter e quel pendolo fra razzismo e politically correct

Il movimento Black Lives Matter divide gli Usa e rilancia nel mondo la tematica della discriminazione razziale. Il messaggio originario è che le vite dei cittadini di colore non sarebbero adeguatamente considerate dalla società e dallo Stato, al punto da essere negate nei casi di uccisioni di afroamericani da parte della polizia. I dati aiutano a comprendere se tale affermazione trova riscontro.

Nel 2019, secondo il database del Washington Post, negli Stati Uniti sono state uccise dalla polizia circa mille persone, di cui 405 bianche, 249 afroamericane, 163 ispaniche, le restanti di altre etnie. Sulla base dei dati del sito Mapping Police Violence, le uccisioni di neri costituiscono il 24% del totale a fronte del 13% della popolazione di colore; mentre il tasso di uccisione dei neri da parte della polizia americana è circa 1,7 volte quello dei latini e 2,6 volte quello dei bianchi. Secondo i dati del sito Sentencing Project e del Bureau of Justice, i neri in America sono arrestati in media cinque volte di più dei bianchi, sono incriminati in misura quattro volte superiore alla loro quota demografica e costituiscono una percentuale della popolazione carceraria tre volte superiore a quella della componente afroamericana della popolazione.

Tali dati si registrano in un Paese dove: ci sono 120 armi per ogni cento cittadini; gli omicidi con armi da fuoco sono circa 15mila l’anno (secondo il Center for Disease, Control and Prevention); i poliziotti sono addestrati ad avere paura per la propria vita (“Fear-based training”) e a prevenire con la forza una possibile minaccia, ma ogni anno ne vengono uccisi in media 160 (secondo il National Law Enforcement Officers Memorial Fund); circa il 70% degli arrestati è bianco, il 27% nero, il 18% ispanico (dati FBI); la presenza etnica di bianchi e neri nella polizia è coerente con la percentuale della composizione della popolazione (sito datausa.io); la rappresentanza politica degli afroamericani è in costante crescita e, dopo l’elezione di un Presidente di colore, è giunta a 52 membri del Congresso (fonte Pew Research Center).

I dati riportati mostrano che gli U.S.A. sono un Paese più pericoloso di altri a causa della grande circolazione di armi, con rischi aggravati per i cittadini di ogni etnia ed anche per i poliziotti; che la presenza afroamericana nella polizia e nelle istituzioni americane è coerente con la composizione della popolazione; che le uccisioni da parte della polizia, nel quadro di un esteso uso della forza, riguardano tutte le etnie ma quelle relative agli afroamericani sono percentualmente maggiori rispetto alla popolazione di colore, in un contesto tuttavia in cui le persone di colore vengono arrestate e incriminate in percentuale molto superiore alla loro quota di popolazione.

In questo quadro, al netto dei casi singoli e delle situazioni nei vari Stati, si può supporre che l’esposizione di molte persone di colore al conflitto con la polizia in occasione di arresti, in un Paese dove circolano moltissime armi ed è consueto l’uso della forza, costituisca un fattore di rischio determinante. Se questo è vero si può ipotizzare che, salvo episodi specifici, l’alto numero di uccisioni di afroamericani da parte delle forze dell’ordine non derivi esclusivamente o prevalentemente da una discriminazione razziale bensì anche o maggioritariamente dall’elevato numero di situazioni violente e/o conflittuali che coinvolgono persone di colore e polizia.

In questa ipotesi il fulcro della questione si sposta sulle cause che sono alla base degli arresti di afroamericani e sulle modalità di esercizio della forza da parte della polizia americana. Si può ritenere che le ragioni risiedano in un persistente razzismo dei poliziotti verso gli afroamericani, che li porta a eccedere negli arresti e nell’uso della forza. Ma tale opinione va coniugata con i dati sulla componente carceraria di colore, che evidenziano un rapporto significativo tra tasso di arresti e di detenzione, e con l’ordinario uso della forza da parte della polizia americana verso i cittadini di ogni etnia.

Si può allora indagare sulle ragioni socioeconomiche che espongono molti afroamericani a situazioni di conflitto con la polizia, richiamando la vicenda storica della componente nera della popolazione U.S.A. e la persistenza di estese condizioni di disagio. Anche in questo caso si può ritenere che le cause del fenomeno siano essenzialmente razziali o, al contrario, riconducibili a fattori socioeconomici scissi da problematiche razziali.

In ogni caso la ricostruzione della vicenda solo sul piano razziale, fatto salvo il comportamento di singoli poliziotti, benchè comprensibile sul piano emotivo a fronte di immagini umanamente inaccettabili, non appare convincente e induce a configurare il messaggio antirazzista Black Lives Matter come una narrazione che va oltre il problema della polizia “violenta” e accredita una proposta storica e politica per la società.

In particolare le proteste appaiono cariche di pulsioni antisistema, alimentate anche dal disagio socioeconomico e dalla rabbia di larghe fasce della popolazione a seguito della pandemia virale, portando a manifestazioni pacifiche ma anche a violenze, gesti plateali, attacchi a statue di personaggi storici; e denunciano un razzismo sistemico, cui dare risposte sul piano storico e politico, attraverso la rilettura del passato e dell’attualità in chiave antirazzista, espellendo i personaggi di pelle bianca ritenuti in qualche modo colpevoli, rielaborando i valori socioculturali su una nuova base identitaria, riscrivendo le regole del linguaggio e della semantica, conformando la cultura ai valori del politically correct razziale.

Il razzismo sistemico denunciato da Blm sarebbe presente in Usa nonostante che la società sia multiculturale e multietnica, con persone di colore presenti in ogni ambito e ad ogni livello della vita americana, dallo sport alla musica, dall’arte alla cinematografia, dalla religione alla scienza, dalla televisione alla politica. Una società nella quale convivono e collaborano plurime etnie e in cui il disagio socioeconomico di una parte della popolazione di colore si accompagna a quello di una componente della popolazione bianca e si connette ad aspetti critici del modello di sviluppo americano piuttosto che a differenze di etnia.

Con tali premesse, il movimento sembra ripercorrere i passi di altri gruppi della galassia politically correct: esaltare aspetti emozionali, attribuendo a singoli episodi una valenza sociale e politica generale; estremizzare alcuni valori della società, riformulando di conseguenza l’analisi storica e l’identità culturale; rinforzare aspetti divisivi delle relazioni sociali tra maggioranza e minoranze; dettare regole di linguaggio e di comportamento; supportare una strumentalizzazione politica delle proteste. In sostanza, al netto della denuncia razziale, sembra che si voglia affermare un nuovo sistema di pensiero e di azione, una nuova ideologia dei diritti civili ovvero, per usare le parole della filosofa americana Martha Nussbaum, una “religione civile” che ponga fine ai conflitti sociali sulla base di nuovi valori condivisi.

Certo, è naturale che i sostenitori di una nuova “religione” abbattano i simboli di quella vecchia e chiedano di riscrivere la storia secondo i loro parametri. È normale che i valori siano estremizzati, come avviene per ogni movimento allo stato nascente. È coerente che i conflitti vengano inaspriti, per risolverli sulla base delle nuove priorità. È logico che la politica cavalchi le emozioni sociali per trarne vantaggio. È comprensibile che parte dell’informazione e della cultura si schierino a fianco del pensiero emergente. È prevedibile che si cerchi di condizionare il linguaggio a favore della narrazione sostenuta. Ma vi è anche il rischio che si alimentino pregiudizi storici, condizionamenti ideologici, conflitti sociali e conformismi culturali, indebolendo elementi fondamentali del vivere civile, come l’identità storica, il pragmatismo, la mediazione sociale e la libertà di pensiero.

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