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Il Black lives matter e quel rischio di un daltonismo ideologico

Di Luigi Curini e Andrea Molle

Facciamo un po’ di chiarezza: i Black lives matter (Blm) sono nati sotto i migliori auspici di un movimento per l’affermazione del valore della vita delle persone di colore, e come tale ha riportato l’attenzione sui mille problemi razziali di una America mai forse del tutto (ancora) maturata sotto questo punto di vista. E tuttavia, in un tempo relativamente breve, le frange più radicali del movimento si sono trasformato in qualche cosa d’altro, deludendo le attese.

Nonostante la retorica volutamente ambigua, la scelta del nome Black Lives Matter e la sua volontà di rappresentare un riferimento al fatto che, se tutte le vite contano, anche quelle di colore devono (sacrosantamente!) essere preservate, per alcuni dei suoi rappresentanti, spesso bianchissimi e ideologicamente assai radicali, è infatti in atto un vero e proprio daltonismo ideologico, in cui si è pronti ad attaccare tutto e tutti spesso unicamente per il colore, bianco o comunque non black, della loro pelle.

Come si spiegherebbe altrimenti le sempre più frequente esclusione, da parte dalle battaglie dei Blm contro il suprematismo bianco, delle istanze degli immigrati e delle minoranze latine e asiatiche?

O i (difficili) rapporti con la comunità italo-americana rappresentato non tanto dalla distruzione delle statue di Colombo (già di per sé qualche cosa di cui varrebbe la pena discutere seriamente), ma dalla cancellazione della loro storia di discriminazione? Di fronte infatti alle proteste, a Baltimora, Philadelphia e in molte altre città, per essere stati esclusi dalle decisioni relative alla rimozione della statua di Colombo, gli italo-americani si sono infatti sentiti rispondere, nonostante appelli politici all’inclusione, che la persecuzione verso gli italiani non è in fondo mai esistita sul serio e se questi proprio vogliono un monumento ad un italiano che mettano una statua dedicata ad Al Capone, un noto criminale, o a Chef Boyardee (al secolo Boiardi), il fondatore di un’azienda specializzata nella produzione di, molto discutibili, ravioli in scatola. Insomma due grossi stereotipi, esempio di ciò che a parole il Blm dice di combattere.

O infine, il motto Fuck Trump and Fuck Eric Garcetti (ovvero il sindaco democratico di origine italiana ed ebraica di Los Angeles) per le strade della città degli angeli, piene a detta dei manifestanti di “Liberal White Supremacists” e in cui riecheggia il tema dell’antisemitismo non estraneo a Blm.

Insomma, non si può che essere a favore dei diritti inalienabili delle minoranze, in particolare di quelle di colore. Ma trasformare questa giusta posizione in una caccia alle streghe di pura “identity politics” sarebbe un errore tragico e pericoloso.

Quando Barack Obama fu eletto, primo cittadino afro-americano nella storia del paese, Presidente degli Stati Uniti d’America, molti furono i commentatori che, giustamente, applaudirono al valore storico di questo evento. Per alcuni, che guardavano più lontano, l’importanza di Obama non era tuttavia tanto quella di essere stato il primo, quanto piuttosto la responsabilità di non essere l’ultimo presidente nero americano.

Sarebbe dunque un paradosso che la rovina dell’eredità simbolica di Obama e dei suoi otto anni di presidenza, rischi di arrivare non tanto dai suprematisti bianchi tatuati e armati fino ai denti, i quali checché se ne dicano, sono solo una sparuta minoranza, e neppure dallo stesso Presidente Trump, che nel suo governare in modo erratico sta riconsegnando la Presidenza, e forse anche il Senato, ai democratici (almeno a detta dei sondaggi di queste settimane).

Bensì da una parte non banale del mondo progressista liberal che magari in futuro seguirà il consiglio di Robert Johnson, fondatore della Black Entertainment Television, a formare un proprio partito politico per sganciarsi per l’appunto da quello che elesse Obama. Un qualche cosa che rappresenterebbe un colpo ferale per le ambizioni future del partito dell’asinello.

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