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Disinformazione cinese, ecco perché si mette male per Borrell

A fine aprile su Formiche.net avevamo raccontato — per primi in Italia — la storia del report del Servizio europeo dell’azione esterna sulle narrative e sulla disinformazione sulla pandemia di coronavirus Covid-19. Un documento atteso per diversi giorni: il ritardo aveva causato polemiche e tensioni nell’Unione europea, tra politici e funzionari, visto che, stando alle rivelazioni del New York Times, l’Unione europea avrebbe “ammorbidito” le conclusioni dopo le pressioni della diplomazia cinese. Secondo il giornale statunitense la pubblicazione è stata rinviata per permettere agli autori di renderla un po’ più generica rispetto alle anticipazioni di alcuni giorni (che avevano irritato Pechino): sparita, per esempio, una frase sulla «disinformazione globale» a opera della Cina.

Quell’incidente fu il primo di due in pochi giorni. Infatti, a inizio maggio, sul China Daily è apparsa una lettera scritta dagli ambasciatori dei 27 Stati membri dell’Unione europea che, in occasione dei 45 anni di relazioni, chiedevano maggiore cooperazione con la Cina.  La pubblicazione, però, era avvenuta soltanto dopo un controllo effettuato dal governo cinese. E così erano spariti i riferimenti all’origine del coronavirus in Cina (e diffuso dalla Cina in tutto il mondo), come avevamo spiegato su Formiche.net.

Ma torniamo al caso del rapporto “ammorbidito” da funzionari vicini all’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell. Il Servizio europeo per l’azione esterna ha aperto immediatamente un’indagine — sia chiaro: non per andare a fondo della scelta di “ammorbidire” il linguaggio bensì per punire chi, all’interno dello stesso Servizio, aveva passato informazioni alla stampa.

“Tre fonti dell’Unione europea mi hanno detto questa settimana che il Servizio europeo per l’azione esterna sta per concludere le sue indagini sulla fuga e che i risultati preliminari non sono positivi per Borrell”, scrive Noah Barkin, giornalista e senior visiting fellow del German Marshall Fund, nell’edizione di luglio della newsletter che cura per l’organizzazione statunitense. Il capo della diplomazia europea, scrive Barkin, “aveva incolpato pubblicamente un giovane analista del Servizio prima ancora che le indagini fossero iniziate. Si dice che l’indagine non abbia prodotto alcuna prova del fatto che l’analista, Monika Richter, abbia fornito dettagli di uno scambio di email interne al New York Times. Lo scambio di email mostrava che Richter aveva invitato, in termini netti, i suoi colleghi a non modificare il rapporto in risposta alla pressione cinese, un avvertimento che hanno ignorato. Due mesi dopo l’incidente”, continua Barkin, “Richter ha deciso di lasciare il Servizio per un altro lavoro. Mi è stato detto che anche un altro collega che si è opposto alla gestione dell’episodio da parte di Borrell ha presentato le sue dimissioni. Borrell non ha ancora spiegato le sue azioni, nonostante abbia ricevuto una richiesta formale da parte di un membro del Parlamento europeo”.

C’è una domanda più ampia che emerge da questo incidente, conclude Barkin. Come gestirà il Servizio la disinformazione cinese in futuro? “Mi è stato detto che in seguito alle dimissioni, l’unità avrà quattro analisti focalizzati sulla disinformazione russa, uno focalizzato sulla regione Mena e un altro sui Balcani occidentali. In primavera, nel bel mezzo dell’ondata di propaganda pandemica cinese, un’altra persona è messa sulla Cina”. Ma, come raccontato da Politico Europe non c’è accordo su come la task force dell’Unione europea sulla disinformazione dovrebbe gestire la materia o se debba dedicare più risorse. “Dovremmo sensibilizzare l’opinione pubblica e informare le persone sulla portata della minaccia”, ha detto a Barkin un funzionario dell’Unione europea. Invece, la leadership del Servizio rimane cauta. “Ha un mandato da parte degli Stati membri per occuparsi della Russia, ma nessun sostegno formale per espandere il suo lavoro e includere la Cina. Se lo volessero, le capitali europee potrebbero cambiarlo”, conclude il giornalista.

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