Quelle di novembre saranno le 59esime elezioni presidenziali degli Stati Uniti. L’elettorato cattolico potrebbe avere, come nel recente passato, un peso non irrilevante sull’esito dell’appuntamento elettorale. La scelta sarà tra un presidente uscente presbiteriano che si è fatto apprezzare tra i fedeli più sensibili ai temi etici soprattutto per le politiche a sostegno della causa pro-life e un avversario cattolico pronto a realizzare l’agenda liberal-riformista sulle orme di Obama.
Tra i cattolici d’oltreoceano – compagine nient’affatto monolitica – potrebbe prevalere la logica di un voto dato per scongiurare quello che viene ritenuto, a seconda dei punti di vista, il pericolo maggiore: quelli di tendenza conservatrice lo individuano in Biden, pro-aborto, favorevole alle unioni tra omosessuali ed allergico alle sovvenzioni per le scuole private; quelli d’orientamento liberale, invece, vedono col fumo negli occhi Trump per le politiche migratorie restrittive e il favore alla vendita liberalizzata delle armi.
Fino ad oggi l’unico cattolico ad essere arrivato alla Casa Bianca è stato John F. Kennedy, ma la loro partecipazione alla vita politica non è più un tabù da tempo. JFK divenne il 35esimo presidente nonostante la sua appartenenza confessionale venisse percepita come un handicap durante la campagna elettorale al punto da spingerlo al famoso discorso di Houston nel quale rivendicò di credere ad una separazione assoluta tra Stato e Chiesa. Una scelta dettata dall’esasperazione per gli attacchi subiti sulla fede (“Mi sto stancando di questa gente convinta che io voglia sostituire l’oro di Fort Knox con una fornitura d’acqua santa”) e che avrebbe condizionato negli anni successivi il modo di stare in politica dei cattolici americani. Il discorso di Houston smussò l’impatto sull’opinione pubblica di ritrovarsi un papista alla Casa Bianca.
Nonostante la forte focalizzazione sul tema che ci fu nella campagna del 1960 (in un sondaggio dell’epoca emerse come il 95% degli intervistati fosse a conoscenza della confessione di Kennedy, mentre solo il 5% di quella di Nixon), nulla fu paragonabile a quanto avvenne per le presidenziali del 1928. Negli Stati Uniti degli anni Venti, nel pieno della rinascita del Ku Klux Klan sviluppatasi sull’onda del sentimento anti-cattolico e dell’odio contro gli immigrati, la nomination democratica alla presidenza venne conquistata da Al Smith, cattolico e figlio di un italiano e di una irlandese. Il padre si americanizzò il cognome da Ferraro, lui non rinnegò la sua fede in un tempo in cui il papa veniva definito con disprezzo “autocrate” nei pamphlet di influenti pastori protestanti.
Eletto governatore di New York per quattro volte, “the happy warrior” – come lo ribattezzò F. D. Roosevelt – provò già nel 1924 a fare il candidato vicepresidente ma i delegati dem appoggiati dal Klan riuscirono a sbarrargli la strada. Quattro anni più tardi divenne il primo cattolico in una corsa presidenziale. La questione religiosa accompagnò tutta la campagna elettorale, con violenti attacchi a Smith di cui si metteva in discussione la capacità di conciliare l’obbedienza al papa e quella alla costituzione americana. I suoi nemici, attraverso opuscoli e pulpiti, instaurarono un clima di terrore nell’elettorato protestante, paventando persino la minaccia di un trasferimento papale alla Casa Bianca grazie alla vittoria democratica.
Durante un tour elettorale a Oklahoma City, il treno di Smith venne accolto dal Kkk con una fila di croci bruciate. Il pregiudizio anti-cattolico e razzista determinò una delle sconfitte più cocenti nella storia delle presidenziali americane che gli costò la carriera politica: il repubblicano Hooverz vinse 58 a 41 nei voti popolari, 444 a 87 in quelli elettorali. Eppure, la parabola di Al Smith fu determinante a ridisegnare l’immagine del Partito Democratico fino ad allora considerato legato agli agrari e agli integralisti protestanti, consentendogli per la prima volta di intercettare quel voto delle minoranze poi decisivo per l’elezione di Roosevelt nel 1932. Da cattolico impegnato in politica, Smith non fu invece un anticipatore della posizione di Kennedy perché di fronte agli attacchi, non si piegò ad avallare il confinamento della fede nella sfera privata, dichiarando: “Non sono in grado di capire come tutto ciò che mi è stato insegnato a credere come cattolico possa essere in conflitto con l’essere un buon cittadino”. Chissà se senza il massacro pubblico subito nel 1928 dal primo papista ad essersi avvicinato alla Casa Bianca, JFK avrebbe ugualmente sposato la linea dell'”assoluta separazione” 32 anni dopo.