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Conte e Zinga? Come Craxi e De Mita. Franchi legge i subbugli rossogialli

Cosa cova sotto la cenere dei tweet al veleno tra i dem? È davvero solo la tensione prodotta dall’emergenza Covid ad armare la mano di chi oggi agita lo spettro di un cambio in corsa della maggioranza, oppure ci sono altre strade che i singoli protagonisti provano a battere?

Secondo Paolo Franchi, editorialista del Corriere della Sera, Pd e M5S sono ormai un’armata in rotta, ma dietro le schermaglie ci sarebbe anche la grande questione legata alla segreteria di Intesa San Paolo.

Perché sta salendo la tensione all’interno del Pd proprio quando Zingaretti ha puntellato Conte? Solo colpa della crisi del M5S o al Nazareno c’è fermento?

Al di là degli scambi di tweet, a voler volare alto, mentre forse sarebbe il caso di volare molto più basso, credo ci sia un problema di fondo nel Pd, accentuato dalla situazione paradossale legata alle misure post Covid: ha preso corpo, in forma esplicita e implicita, l’interrogativo su quale sia la prospettiva politica di questo governo. Certamente nasce come maggioranza politica contro il Papetee salviniano e per evitare l’ipoteca del centrodestra sul prossimo Presidente della Repubblica. Questi i due aspetti costituitivi dello stato di necessità.

Ma oggi i due contraenti di quel patto a che punto sono del guado?

Sono un’armata alquanto in rotta: il movimento antisistema non sta reggendo la prova di governo del sistema assieme al Pd che è semplicemente sistema. Lo stato di necessità da solo non basta se non gli si indica una via da seguire che non sia solo il muro a Salvini. Serve fiato, respiro, prospettiva. In verità una prospettiva politica dem c’era e fu adombrata dallo stesso Grillo, poi cara anche alla sinistra del Pd per usare una topografia classica: avviare un processo di ricomposizione tra queste due forze, preceduto da un rimescolamento delle carte che portasse ad un conglomerato con radici e obiettivi comuni.

C’è stato?

No. Non si è vista l’ombra di un passo avanti, né in sede di coalizione di governo né in sede politica. Il principale motivo risiede nel fatto che forse si tratta di una prospettiva impossibile rispetto ai singoli elettorati. Lo dimostrano le candidature non unitarie alle prossime regionali. Nel migliore dei casi Zingaretti lancia dei penultimatum al governo: in cambio ottiene un incontro col premier. Ricordo, quando muovevo i primi passi in Parlamento, che al tempo dei fortissimi contrasti fra Craxi e De Mita un collega giornalista parlamentare Renato Venditti era solito dire “si sono visti, c’è l’accordo”. Oggi è un po’ così.

Ma dopo?

Due giorni dopo tutto ricomincia come prima. Sono prigionieri di una situazione in cui così non va, ma altro non si può fare.

Il primo fendente è arrivato da un moderato come Andrea Orlando, cresciuto nel vecchio Pci ligure: se lo aspettava?

Era rivolto a Renzi, mi sembra, ma poi ha dato una “sberla” a Bersani in maniera del tutto gratuita. Anche il tramestio sull’altro governo possibile, a cui le frecciate di Orlando sono rivolte, è denso di interrogativi. Chi aprirebbe la crisi? Con quale altra maggioranza? Si tratta di elementi su cui non è possibile glissare. Per cui questa minaccia resta solo un rumore di fondo e non una proposta politica che abbia una qualche base concreta. Ho l’impressione che siano tutte prove con sullo sfondo una grande questione: la segreteria del partito, che è anche all’origine di quest’ultimo fuocherello, oltre che delle rivendicazioni di Gori.

Quanto incide negli equilibri generali il fatto che a guidare il Pd non ci sia una personalità spiccatamente carismatica, come in passato D’Alema, Veltroni o Renzi?

Molto. Ma non saprei sinceramente chi oggi nel Pd abbia uno spiccato carisma e volgendo lo sguardo indietro non ce ne sono stati. Andando ancora più indietro penso a grandi personaggi, discussi e discutibili, che però appartengono tutti al passato abbastanza remoto. D’Alema e Veltroni sono stati gli ultimi: molto diversi, portatori di due prospettive apertamente divergenti. Il primo che perorava il centro-sinistra col trattino, ovvero una grande sinistra collocata in un Ulivo, mentre il secondo dichiaratemente dem. Si tratta di due personaggi dotati di una storia politica chiara a milioni di persone, non a poche centinaia, che sulla base di due visioni politiche o se le davano oppure stringevano accordi, obtorto collo o meno. Una dinamica propria di gruppi dirigenti politici. Oggi non c’è nulla del genere, perché mancano sia quel contenitore partitico, sia un leader carismatico.

Secondo il renziano Davide Faraone, il riformismo è ormai lontano anni luce da questo Pd, mentre Claudio Velardi ha definito la lite una roba da bambini. Che ne pensa?

Sul riformismo starei pacato, visto che il contrario di riformista è massimalista: onestamente tutto mi sentirei di dire del Pd, ma non che sia massimalista. Inoltre circa lo scambio di tweet ha ragione Velardi, anche perché come accade tra bambini manca il merito. Su cosa litigano nessuno dei contendenti lo dice apertamente. Se qualcuno facesse loro la fatidica domanda che genitori e nonni porgono ai bambini, ovvero perché stanno litigando, non so se otterebbe risposte.

twitter@FDepalo

 

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