Autostrade per Conte (e il Contismo) sarebbe stata la partita nella quale giocarsi tutto. Da una parte la risolutezza della revoca, misura che in qualche modo avrebbe reso l’attuale presidente del Consiglio il potenziale futuro capo del Movimento Cinque Stelle; dall’altro una posizione politica in apparenza più conciliante, ma in realtà molto più sottile perché non solo avrebbe compattato la maggioranza (nei fatti oggi solo Renzi è rimasto con il cerino in mano senza peraltro avere la forza di rompere l’alleanza di governo), tenendo a bada le pulsioni populiste dei Cinque Stelle (soprattutto dell’area più antagonista), ma sarebbe stata l’ennesima conferma di un Conte perfettamente in linea con il ruolo di insider di Palazzo, che media, smussa e prende decisioni che alla fine possono accontentare tutti (vedere Tav e Tap), rilanciando sulla scena personaggi che oggi rivendicano una vittoria (Toninelli ad esempio) che a conti fatti solo lui può rivendicare.
L’accordo con Autostrade è la vittoria del Contismo, una sorta di trasformismo 2.0, in grado di guidare esecutivi diametralmente opposti nella loro impostazione di politica economica e culturale.
Proprio Conte in questi mesi di lockdown ha capito che il Paese dopo le divisioni quasi trentennali del berlusconismo e del giustizialismo di Tangentopoli (che purtroppo (r)esiste ancora in modo marcato sia nei Cinque Stelle che in una parte del Pd), alla vigilia di un autunno caldissimo (Confindustria e Cgil hanno alzato il livello dello scontro e alle elezioni regionali di autunno il centrosinistra può perdere Puglia e Marche) ha smussato, mediato, rifiutando scontri e tensioni, che inevitabilmente si sarebbero materializzati con esiti imprevedibili nel contenzioso con Autostrade. Messi all’angolo Renzi e la parte più riformista del Pd, tornato ad essere anche il portavoce anche dell’ala antagonista del M5S, Conte ha dimostrato di essere un abile mediatore, in grado di offrire a tutti i protagonisti politici della vicenda argomentazioni per dichiarare vittoria.
Niente revoca della concessione, niente tensioni, ma Atlantia dovrà fare uno sforzo maggiore se vuole chiudere la trattativa con il governo. Era stato più o meno questo, in perfetto Conte style, il senso del vertice a Palazzo Chigi dello scorso 23 giugno con il presidente del Consiglio e i ministri dell’Economia, Roberto Gualtieri e delle Infrastrutture, Paola De Micheli, che da molti mesi stava lavorando in silenzio ad una intesa ragionevole con Autostrade.
Anche perché all’attenzione di Conte c’era da mesi il rapporto dell’Avvocatura di Stato che metteva in evidenza i rischi di un contenzioso legale, rapporto preceduto più di un anno fa da un analogo studio consegnato all’allora ministro Toninelli dai dirigenti del ministero.
Ridurre al minimo le incertezze e trovare un accordo, un compromesso, negoziando sui due fronti aperti: quello delle tariffe e dell’ingresso dello Stato. Dopo Tav e Tap il Contismo ha messo ancora una volta in riga il popolo del no a tutto, e dato però un segnale negativo al mercato e alla concorrenza, principio questo già ampiamente disatteso da venti anni di contratti secretati e da un pubblico che dal 1999 ad oggi ha sempre rinunciato nella gestione del rapporto di concessione a svolgere veramente e fino in fondo il ruolo di controllore.
Con buona pace degli italiani, che ieri ignoravano redditività altissime per i concessionari, ed oggi si ritrovano solo virtualmente azionisti di maggioranza della nuova Aspi (almeno quelli che hanno dei risparmi postali).
Una domanda al presidente del Consiglio vogliamo rivolgerla: con quali modalità e intorno a quali principi di management e di sviluppo industriale sarà costruita la futura public company? Perché se dobbiamo guardare ai modelli recenti di riferimento (Alitalia in primis), siamo molto preoccupati.