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Eterna emergenza, se Conte rimette il Paese in stallo. La versione di Cazzola

La valutazione dello stato di emergenza non può nascere – come  Athena dalla testa di Zeus in  un giorno in cui soffriva di una forte emicrania – dal ‘’pensiero unico’’ del presidente del Consiglio “venuto dal freddo”.

Dopo mesi in cui i ‘’pareri’’ degli scienziati si sono tradotti automaticamente  in disposizioni legislative, Giuseppe Conte non può venirci a raccontare che ha a tal punto imparato la lezione da essere in grado di fare da sé. Inoltre, quale è l’emergenza che ancora minaccia la società tanto da consentire neanche al governo ma al premier di sospendere i diritti dei cittadini?

In una intervista a commento dell’intemerata di Conte il presidente emerito della Corte Costituzionale Cesare Mirabelli ha messo in guardia l’opinione pubblica: “Il rischio di assuefazione alla limitazione delle libertà esiste. Certo – ha proseguito – non si possono ignorare le difficoltà ma esigenze urgenti che richiedono un intervento incisivo e immediato potranno essere affrontate, appunto, con il decreto-legge.

Anzi, sulla base dell’esperienza maturata in questi mesi sarebbe già possibile individuarne i contorni’’. È il medesimo concetto che volle ribadire illustrando la relazione sull’attività della Corte, la presidente Marta Cartabia, durante la fase dura della pandemia (che l’aveva colpita nella persona): ‘’La nostra Costituzione – disse – non contempla un diritto speciale per lo stato di emergenza sul modello dell’art. 48 della Costituzione di Weimar o dell’art. 16 della Costituzione francese, dell’art. 116 della Costituzione spagnola o dell’art. 48 della Costituzione ungherese.

Si tratta di una scelta consapevole. Nella Carta costituzionale non si rinvengono clausole di sospensione dei diritti fondamentali da attivarsi nei tempi eccezionali, né previsioni che in tempi di crisi consentano alterazioni nell’assetto dei poteri. La Costituzione, peraltro, non è insensibile – proseguì -al variare delle contingenze, all’eventualità che dirompano situazioni di emergenza, di crisi, o di straordinaria necessità e urgenza, come recita l’art. 77 Cost., in materia di decreti-legge.

La Repubblica ha attraversato varie situazioni di emergenza e di crisi – dagli anni della lotta armata a quelli della più recente crisi economica e finanziaria – che sono stati affrontati senza mai sospendere l’ordine costituzionale, ma ravvisando all’interno di esso quegli strumenti che permettessero di modulare i principi costituzionali in base alle specificità della contingenza: necessità, proporzionalità, bilanciamento, giustiziabilità e temporaneità sono i criteri con cui, secondo la giurisprudenza costituzionale, in ogni tempo deve attuarsi la tutela «sistemica e non frazionata» dei principi e dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione e dei relativi limiti’’.

Tutti sappiamo che non è stata solo l’irruenza di un virus sconosciuto a determinare un terremoto economico e sociale di proporzioni tanto eccezionali da evocare gli effetti di una guerra. In devastante sinergia con la crisi sanitaria è scoppiata la pandemia della psicosi collettiva, gonfiata dall’incalzare quotidiano dei media, che ha indotto le persone a chiudersi in casa, lasciandosi spogliare non solo dei diritti fondamentali, ma delle più elementari pratiche di vita (come andare a scuola, a messa, ad un funerale, a visitare un parente, ecc.).

Sappiamo tutti che la prosecuzione dello stato d’emergenza è legato anche a motivi pratici. A questo proposito viene citato l’incarico commissariale affidato a Domenico Arcuri (ancora lui!) per l’approvvigionamento dei materiali occorrenti alla riapertura in sicurezza delle scuole a settembre.

Ammesso e non concesso che Arcuri se la cavi meglio che nel caso delle mascherine, viene naturale notare che siamo a metà luglio e che per quanto straordinari siano i poteri del commissario non arriveranno mai al punto di procurare tavoli e sedie per gli studenti a colpi di bacchetta magica. Insomma la sortita di Conte ha sollevato un vespaio politico.

I suoi avversari hanno visto nella mossa del premier un tentativo di garantirsi la poltrona almeno per i prossimi sei mesi. Certo, sarebbe inaccettabile l’esproprio – a colpi di Dpcm – delle istituzioni elettive unicamente per ragioni di potere. Ma, a parere di chi scrive, non è questo l’errore più grave.

Rievocare l’emergenza quando il Paese cerca di ripartire significa riattivare quel panico irrazionale (altro che senso civico!) che lo ha paralizzato per oltre 100 giorni. È un gesto discutibile sul piano della responsabilità. Tanto più che è evidente il proposito di Conte di svicolare dai problemi cruciali che si pongono a livello europeo, dai quali dipende il nostro futuro.



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