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L’Italia ha avuto l’agognata patente di povertà. Pennisi spiega perché

Nella memorabile commedia musicale Fiddler On the Roof (Un violinista sul tetto), Tevye, il povero lattaio ebreo nell’Ucraina sotto il giogo degli Zar diceva, alle proprie figlie che chiedevano di avere doti tali da farle sposare con buoni partiti, diceva: “Non c’è da vergognarsi se si è poveri, ma non si deve neanche esserne orgogliosi”. Tutta l’Italia esultò nel 1984 al tempo del sorpasso statistico, in termini di Pil, della Gran Bretagna. Difficile capire analoga esultanza ora che l’Unione europea (Ue) ci ha dato la patente (o se si preferisce l’Isee) di povertà. Non solo i trasferimenti vengono di solito effettuati tra ricchi e poveri (individui, famiglie, gruppi sociali, Stati) ma l’algoritmo per suddividere le risorse a disposizione del Recovery and Resilience Fund ha come suo elemento centrale la caduta del Pil.

Difficile argomentare che tutta la caduta del Pil quest’anno e (in prospettiva l’anno prossimo) sia interamente attribuibile alla pandemia del Covid-19. Da un lato, la pandemia non è ancora finita; ogni sera leggiamo di focolai in questa o quella parte d’Italia, ci sono timori di una “seconda ondata” in autunno che da noi potrebbe essere più o meno pesante che altrove. Da un altro, è impossibile separare la politica economica, e anche la stessa gestione del Covid- 19, tra le determinanti della caduta del Pil.

Ci sono alcune determinanti importanti che inducono a pensare che la caduta non dipenda solo dal Covid-19 e che – come scriveva Gunnar Myrdal nella metà degli anni Cinquanta – ci sia un elemento politico nel darci la (peraltro richiesta) patente.

Il Pil quasi ristagnava tremolante dall’inizio del millennio al 2008 (pur se in quegli anni il nostro bilancio riportava un leggero avanzo primario tale da far sperare in una molto graduale riduzione del peso del debito della Pubblica amministrazione sul Pil). Ci sono, poi, state due recessioni, una di fila all’altra: nel 2008-2009 e nel 2011-2012. Dal 2013 il tremolio del Pil ha teso al ribasso, mentre dai governi italiani partivano richieste di flessibilità non per investimenti pubblici per la crescita (in declino dal 1992 e rasoterra dal 1999) ma per effettuare trasferimenti di chiaro appeal elettorale.

A questo elemento politico interno nel plasmare la politica economica interna, si è aggiunto un elemento politico europeo ben colto dal settimanale The Economist circa un mese fa: il timore che la politica economica italiana (con un debito della Pubblica amministrazione che veleggia verso il 170%) portasse il Paese fuori dall’area dell’euro (non mancano, nella coalizione di governo, forze euroscettiche), creando uno sconquasso per tutti. Dato che dal 2014 o giù di lì l’Italia chiede flessibilità, piangendo miseria, meglio accontentarla dandole la patente ed imponendole al tempo stesso una netta svolta in materia di politica economica e monitorando detta svolta con attenzione. Per ora, l’Italia è too big to fail (troppo grande per farla fallire). Lo era Lehman Brothers. Sino a quando i mercati si stancarono.

Rispetto ai controlli, Tevye avrebbe detto: Non si fidano? Ebbene sì. Hanno avuto tante promesse da marinaio che questa volta vengono chiesti impegni concreti e documentabili in cambio di aiuti che al più presto arriveranno a metà 2021. Servono – è vero – prima per evitare il tracollo. Ma per questo c’è lo sportello sanitario del Meccanismo europeo di stabilità (Mes) o un possibile “anticipo” del 10%.


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