Quando, dopo che nel 1984 il Parlamento di Strasburgo aveva approvato a larga maggioranza l’ambizioso “Trattato Spinelli” per una riforma in senso federale dell’Europa, nel 1986 il Consiglio Europeo approvò l’Atto Unico, Spinelli commentò: “La montagna ha partorito un topolino”. Il gigante Europa aveva dimostrato i piedi d’argilla di una costruzione fragile, affidata ai veti incrociati dei governi, ai risentimenti degli Stati nazionali, invece che agli interessi condivisi dei cittadini europei.
Qualunque risultato uscirà dal Consiglio si potranno dare due giudizi, opposti. Si potrà dire, con buona ragione, come ha fatto ieri dalle colonne del Corriere Mario Monti, che in ogni caso avremo raggiunto un risultato storico; perché per la prima volta l’Europa avrà accettato di ragionare in maniera collegiale e solidale, impegnandosi a sottoscrivere in comune degli impegni finanziari per una ripresa collettiva.
Ma si potrà, altrettanto a ragione, dire che si poteva fare di più. Perché, ad esempio, la Commissione e il Parlamento, che rappresentano collegialmente i cittadini europei, avevano assunto unitariamente la decisione di chiedere di più. Si potrà dire, insomma, che ancora una volta la montagna ha partorito un topolino.
Il punto è che la montagna non è affatto una montagna. Può sembrare, vista da lontano. In realtà è solo un insieme confuso di topolini, aggrappati l’uno sull’altro; costretti a stare aggrappati per cercare di illudere il resto del mondo di aver di fronte un gigante minaccioso e combattivo. Ma un insieme di topolini non può che partorire un topolino, più o meno grande che sia.
Per essere una montagna, un vero gigante, capace di assumersi le responsabilità che le competono di fronte alla Storia, agli altri attori nella competizione globale e di fronte ai propri cittadini, una montagna dovrebbe essere coesa, granitica. Un soggetto capace di scelte collettive, non un insieme di interessi di singoli governi nazionali, occasionalmente dotati del potere di mettere il veto sulle scelte di una maggioranza.
Dopo settant’anni d’integrazione e tre giorni di negoziati nell’unico organo decisionale che decide davvero in Europa, il Consiglio, credo sia ormai evidente a tutti che questa Europa, così com’è stata costruita, non può funzionare. Perché l’unanimità implica compromessi, calcoli ragionieristici su cosa scambiare per ottenere qualcosa; valori contro soldi, privilegi contro sussidi.
Certo, può emergere qualche risultato positivo, un segnale di speranza. Ma solo dopo un’emergenza pandemica globale; un crollo atteso del Pil del 10%; centinaia di migliaia di morti. Non è una buona premessa per lo stare insieme.
Comunque si voglia giudicare il risultato del Consiglio, quando emergerà un compromesso definitivo, la verità è che siamo ancora in mezzo al guado. Schiacciati fra ventisette democrazie nazionali che non sono in grado di affrontare e risolvere i problemi (né chiudendosi insieme in una stanza, né – ancora meno – singolarmente) ed una democrazia europea che potrebbe affrontarli ma che è ancora in cosruzione.
Questa è la sfida che ancora oggi ci sta di fronte: cancellare il diritto di veto da ogni decisione collettiva; spostare l’asse delle decisioni verso gli organi che rappresentano i cittadini, come Parlamento e Commissione, piuttosto che concentrarli sul Consiglio (dove si scontrano gli interessi dei singoli governi); creare un sistema di risorse proprie, in grado di sostenere nel tempo un maggior bilancio per produrre beni pubblici europei; dotare la Ue delle competenze per essere attore credibile sulla scena mondiale, con una propria difesa, una politica industriale decentrata ma strategicamente orientata, in un’ottica multilivello.
Insomma, l’Europa che noi cittadini vogliamo è ancora tutta da costruire. Oggi, comunque vada il negoziato, sarà stato compiuto un passo avanti. Ma sarà solo il primo di una serie, che ci auguriamo lunga e fruttuosa, verso una piena democrazia sovranazionale.