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Cosa c’entrano gli evangelici con la Guerra fredda Cina-Usa? Lo spiega Annicchino

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Dietro la guerra dei consolati fra Cina e Stati Uniti si cela una partita sotterranea che può diventare un fattore-chiave per la rielezione di Donald Trump il prossimo novembre: la libertà religiosa. La chiusura del consolato americano a Chengdu disposta dal governo cinese come rappresaglia per l’intervento della Casa Bianca sul consolato cinese a Houston ha infatti un valore che va ben oltre “l’occhio per occhio, dente per dente”.

Da anni infatti il consolato a Chengdu è finito nel mirino della Città Proibita per il monitoraggio e la raccolta di informazioni sulle due province della Cina occidentale cui fa riferimento, lo Xinjiang e il Tibet.

Entrambe al centro di una controversia globale, con la Cina accusata da ong e buona parte della comunità internazionale di violare i diritti umani degli uiguri, popolazione turcofona e musulmana in Xinjiang, e dei tibetani, le due regioni rappresentano un nervo scoperto nei rapporti fra Cina e Stati Uniti, soprattutto con questa amministrazione.

Che i consolati non servano solo a distribuire passaporti e visti è un segreto di Pulcinella per chi si intende di diplomazia. Fra le varie funzioni che assolvono c’è sempre anche la raccolta di dati di intelligence. In Cina ogni consolato americano ha una sua area di interesse. Quello a Shenyang, ad esempio, ha un focus particolare sugli eventi correlati a due potenze regionali, Russia e Corea del Nord.

Lo stesso vale per Chengdu. C’è un motivo se Pechino non ha scelto di chiudere i battenti dei consolati di Wuhan (già chiuso per la pandemia, sarebbe stato un gesto simbolico), Hong Kong (nonostante, secondo il giornale propagandistico Global Times, i sondaggi online dei cinesi lo preferissero come oggetto di rappresaglia), Guangzhou o Shanghai.

La scelta cinese non è dunque casuale e anzi risponde alla campagna che il Dipartimento di Stato americano ormai da mesi, sotto la guida di Mike Pompeo, conduce per condannare e colpire a suon di sanzioni la repressione cinese contro le minoranze.

“Il problema dello Xinjiang è universale prima ancora che politico. Tutte le principali organizzazioni internazionali e ong per i diritti umani, nessuna esclusa, dicono che ci sono migliaia di persone incarcerate nei cosiddetti “campi di rieducazione”, è un dato oggettivo” commenta a Formiche.net Pasquale Annicchino, senior research associate Cambridge Institute on Religion & International Studies.

Ma il tema della libertà religiosa e della soppressione del governo cinese sta velocemente scalando la vetta dell’agenda da “Guerra Fredda” che detta i rapporti diplomatici fra Washington e Pechino, spiega l’esperto. Il pressing americano sui diritti umani è parte fondamentale del nuovo capitolo del confronto con la Cina, quello in cui l’amministrazione Trump (come dimostra il recente discorso di Pompeo dalla Nixon Library) mette in discussione la stessa legittimità del Partito comunista cinese (Pcc) e invita i cinesi a prenderne le distanze. Non è un caso se nei discorsi ufficiali delle feluche americane Xi Jinping venga ora definito “segretario generale” e non più “presidente”.

A tre mesi dalle elezioni, in America la vicenda dello Xinjiang, per lo più ignorata dalle cancellerie europee, sta conquistando una centralità senza precedenti. “In questa amministrazione la destra religiosa ha una fiche molto importante, e la politica del governo cinese sulle minoranze religiose ed etniche è un tema considerato prioritario – spiega Annicchino – Quella destra vede nel Pcc uno spauracchio e un demone assoluto, e vuole contrastarlo in tutti i modi possibili. È in corso una vera e propria lotta teologica, che poi si trasforma in scelte di policy ben precise, come l’ultimo round di sanzioni del Tesoro contro gli ufficiali del Partito comunista cinese responsabili di violazioni dei diritti umani in Xinjiang”.

Nella corsa alla conquista del voto cristiano, e tanto più del voto evangelico, zoccolo duro (e influente) della constituency trumpiana che trova nel vicepresidente Mike Pence il suo riferimento alla Casa Bianca, lo scontro con la Cina comunista (su cui Joe Biden mostra più di qualche remora) può trasformarsi in una carta vincente. Anche per i cattolici.

“Il cattolicesimo americano è molto più conservatore di quello europeo. Fra poco ci sarà la revisione dell’accordo fra Cina e Vaticano, un patto che divide molto i cattolici negli Usa. Una parte non ha compreso la scelta della Santa Sede di optare per la Ostpolitik, per una diplomazia di basso profilo e non muscolare. La destra americana in particolare non vuole scendere a compromessi con il comunismo, tantomeno con quello cinese”, dice Annicchino.

Che l’attenzione sia massima negli States lo dimostra il lavoro indefesso delle commissioni di inchiesta per la libertà religiosa. Un’audizione della Commissione sulla Libertà religiosa internazionale questo mercoledì ha sollevato un altro tema chiave: l’uso della tecnologia per la repressione delle minoranze in Cina, e l’accondiscendenza di tanti campioni americani verso il governo cinese.

“Durante lo scorso decennio, il Pcc ha installato centinaia di milioni di telecamere di sorveglianza nel Paese, soprattutto in Xinjiang e in Tibet, dove i sistemi di riconoscimento facciale distinguono uiguri e tibetani dai membri di altri gruppi etnici” ha detto il vicepresidente Tony Perkins. Poi l’accusa: Alcune aziende americane “hanno cooperato attivamente con le autorità cinesi per rendere possibile questa sorveglianza”.

La lista è lunga. Da pesci piccoli come Thermo Fisher Scientific, Massachusetts, che ha esportato in Xinjiang test per i dna per distinguere fra Han, uiguri e tibetani, a giganti come Google, finito nel mirino degli attivisti per il “Progetto Dragonfly”, pensato per adeguare l’algoritmo di ricerca agli standard di censura della “Grande muraglia cinese”.

Spiega Annicchino: “La battaglia per i diritti umani si intreccia con il braccio di ferro nel mondo tech. Un recente documentario del Wall Street Journal dimostra come lo Xinjiang sia oggi un laboratorio per il governo cinese. In assenza di qualsiasi normativa sulla protezione dei dati personali, Pechino ha strada libera per la raccolta e la classificazione dei dati personali della popolazione internata”. La connivenza dei colossi tech americani, dice, “è motivo di grande imbarazzo per l’amministrazione Usa, che infatti punta al ritorno delle big tech non solo per rimpatriare la produzione ma anche per scongiurare un name and shame internazionale”.

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