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È partita Hope, la speranza degli Emirati Arabi verso Marte (e oltre)

Abu Dhabi. È ufficiale, anche gli Emirati sono entrati nel “Mars Club”, insieme a Stati Uniti, Cina, India ed Europa. Dopo diversi rinvii per maltempo, quello scandito poche ore fa sarà ricordato come il primo countdown spaziale in arabo, anticipato da notti arabe infuocate dalla luce rossa proiettata sui grattacieli di Dubai. Rossa come Marte, ovviamente. Era il 2014 quando la prima sonda spaziale emiratina fu stata battezzata Hope (Amal in arabo), Speranza. Sei anni dopo, con un nome quanto mai profetico all’epoca del Coronavirus, ha iniziato il suo epico viaggio dal Tanegashima Space Centre, in Giappone, all’1:58 ora di Abu Dhabi, approfittando della particolare condizione di vicinanza tra Marte e la Terra che si ripete ogni due anni.

Poco sembra essere lasciato al caso in  un Paese in cui lo storytelling della nazione è studiato con cura certosina, dove la costruzione dell’identità nazionale si pone a cavallo tra ossessione per l’heritage e pionieristiche Agende nazionali. Eppure, quando nel 2014 la Emirates Mars Mission (EMM) è stata lanciata, di astronomico, in un Paese che ancora non possedeva neppure una propria Agenzia spaziale, appariva esserci soprattutto la scommessa. Oggi, invece, l’aerospazio appare una delle punte di diamante della meticolosa diversificazione economica emiratina.

Freschi di un nuovo Nation Brand inaugurato ad inizio 2020, dopo l’anno dedicato al padre fondatore Bin Zayed (2017) e quello alla Tolleranza (2019), segnato dall’incontro tra Papa Francesco e il Grande Imam di Al-Azhar Ahmad Al-Tayyib, il 2021 vuole essere l’anno del Jackpot (anche mediatico) per quello che potrebbe essere il primo Paese arabo a raggiungere Marte, proprio nell’anno del giubileo d’oro quando la Federazione delle sette monarchie compie 50 anni di vita, dopo l’indipendenza dal Regno Unito nel 1971.

“Siamo partiti dal deserto del nostro Paese e vogliamo che i prossimi 50 anni inizino dal deserto di Marte”, ha dichiarato Sheikh Hamdan bin Mohammed bin Rashid Al Maktoum, principe di Dubai, in uno dei tanti video vibranti di orgoglio e ispirazione che circolano sui social in queste ore: “Vogliamo che gli Emirati siano uno dei principali paesi del rinascimento della conoscenza araba. La nostra missione su Marte è un messaggio di speranza per tutti gli arabi”.

Hope ha un Dna variegato ma un’anima profondamente emiratina. Frutto della collaborazione del Mohammed Bin Rashid Space Centre (MBRSC) di Dubai con University of Colorado Boulder, University of California, Berkeley, e Arizona State University, la sonda, assemblata in Colorado, testata a Dubai e lanciata in Giappone, avrà il compito di studiare il clima e l’atmosfera di Marte. A capo del progetto, Sarah Al Amiri, 33 anni, ministro di Stato per le scienze avanzate, oggi anche alla guida di un team di giovanissimi ingegneri aerospaziali, età media 27 anni.

Il Pianeta Rosso e la fascinazione dell’immaginario a esso legato sono un ottimo diversivo, soprattutto ora che sulla linea del tropico del Cancro, l’aria è diventata ancor più pesante per il doppio shock del Coronavirus e della crisi petrolifera, che secondo il Fondo monetario internazionale dovrebbe portare a una contrazione economica del 3,5%. Un colpo duro ma tollerabile per un Paese che vanta un Pil pro-capite tra i più alti al mondo. Forti di un buffer finanziario stratosferico, tra fondi sovrani (solo l’Abu Dhabi Investment Authority è il terzo dopo quelli di Norvegia e Cina) e riserve della Banca centrale, gli Emirati hanno reagito al crollo del petrolio con generose iniezioni liquidità (70 miliardi di dollari messi a disposizione dalla Banca centrale degli Uae) e con l’attivazione del Debt Capital Market, con uno scenario che potrebbe ripetere quello della crisi del 2009, quando il ricchissimo ma più sobrio emirato di Abu Dhabi (dove si annida oltre il 90% degli idrocarburi) ha salvato Dubai con un prestito di 10 miliardi di dollari a cui se ne sono aggiunti altrettanti in obbligazioni alla Banca centrale.

Anche per questo, in effetti, non è stato difficile applicare (e far rispettare rispettare) lockdown draconiani. I dati ufficiali che descrivono da inizio pandemia poco più di 340 morti su circa 10 milioni di abitanti sono accettabili solo in un Paese in cui la redistribuzione delle rendite del petrolio assicura sonni tranquilli alla specie protetta di cittadini (appena 1,4 milioni) e dove il congelamento dell’Iva al 5% (passata invece al 15% in Arabia Saudita) rimane ancora attraente per l’enorme massa di espatriati, oltre sette milioni di lavoratori tra blue e white collars. Il resto l’ha garantito la tempestività degli screening a tappeto. L’agenzia di comunicazione governativa Wam, infatti, ha già ufficializzato 4 milioni di test al 13 luglio scorso, laureando gli Emirati campioni mondiali di screening per milione di abitante, nonché l’inizio della sperimentazione vaccinale di fase III (di nuovo la prima su scala mondiale) tramite una partnership tra la società farmaceutica statale cinese Sinopharm di China National Biotec Group (CNBG) e G42, società di intelligenza artificiale e cloud computing con sede a Abu Dhabi. Al test prenderanno parte fino a 15 mila volontari, reclutati già in questi giorni per effetto del grande tam tam mediatico, mentre il kick-off è partito niente meno che da Sheikh Abdullah bin Mohammed Al Hamed, capo del Dipartimento della Salute di Abu Dhabi, che simbolicamente si è già sottoposto alla prima somministrazione.

La collaborazione tecnologica e farmaceutica tra la Cina e gli Emirati, uno dei più solidi alleati americani nel Golfo, non è passata inosservata in un momento in cui il Covid ha creato un ulteriore fronte di ostilità tra Washington e Pechino (Il Financial Times ha titolato circa un mese fa: “Gli Emirati Arabi Uniti catturati tra Stati Uniti e Cina mentre le potenze si contendono l’influenza nel Golfo”).

A gettare acqua sul fuoco, sul piano delle ambizioni spaziali, ci ha pensato l’ambasciatore degli Emirati negli Usa Yousef Al Otaiba: “Quasi 60 anni fa, il presidente John Kennedy ha pronunciato il suo famoso discorso sulla luna e ha catturato l’immaginazione del mondo; oggi negli Emirati Arabi Uniti, esiste la stessa energia e lo stesso stupore con il lancio della sonda Hope”. Intanto, il governo ha già pubblicato addirittura una pagina dedicata al primo insediamento umano abitabile su Marte entro il 2117. La società di architetti Bjarke Ingels Group ha il compito di sperimentare nel deserto di Dubai la “Mars Science City” un insieme di cupole avveniristiche, sia per foggia che per prestazioni tecnologiche, del valore di circa 135 milioni di dollari. Forse solo una suggestione da professionisti del soft power, ma isole a forma di palma o di planisfero, la torre più alta del mondo (Burji Khalifa) e il nuovo spin-off del Louvre ad Abu Dhabi, là dove c’era solo sabbia, sono una dimostrazione tangibile del balzo temporale compiuto nel giro di pochissimi decenni.

Nei mesi in cui Hope avrà agganciato l’orbita del Pianeta rosso, per gli Emirati sarà l’occasione di un nuovo primato, anche se rimandato di un anno per il Covid: la prima esposizione universale allestita in un Paese arabo. A ExpoDubai sono attesi 25 milioni di visitatori. Per gli Uae, secondo stime precedenti al Coronavirus, si prevedono ritorni economici di circa 33,3 miliardi di dollari (1,5% del Pil) entro il 2031, mentre uno studio del Politecnico di Milano ha calcolato in circa 1,5 miliardi di euro l’anno l’impatto potenziale sulle esportazioni italiane. “Sarà il primo evento globale post-pandemia”, ha dichiarato il Commissario generale dell’Italia a Expo Dubai, Paolo Glisenti, l’8 giugno scorso, nel giorno in cui il governo italiano ha presentato il Patto per l’Export, la cura da cavallo per il made in Italy. E magari allora, non solo Marte, ma anche un rimedio efficace o un vaccino contro il Covid non saranno più fantascienza.

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