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Scontro per il Ladakh. Cosa vuole Pechino dall’India? L’analisi di Valori

L’Esercito Popolare Cinese, il 15 giugno scorso, ha colpito a morte alcuni soldati indiani, circa 20, a Galwan, una valle e un fiume del Ladakh. La questione territoriale, in quella zona, è ancora molto difficile da definire: la Lac, Line of Actual Control del 1993 ha integrato nell’area a controllo cinese 60 km quadrati di antico territorio indiano; e c’è ancora da definire il controllo della Dsdbo, Darbuk, Shyak, Daulat Beg, Oldi, la strada di 225 chilometri che mette in comunicazione l’area del Ladakh e la Valle di Galwan con l’esterno.

Qui, nel nord del Ladakh, c’è anche la possibilità, per l’India, di una guerra simultanea su due fronti, con il Pakistan nel ghiacciaio del Siachen e con la Cina nel resto del nord.

La Cina ha dimostrato di non essere peraltro interessata a ben cinque diversi accordi di pace, nel 1993, nel 1996, nel 2005 nel 2012 e nel 2013, definiti fin dalla guerra del 1962 tra nuova Delhi e Pechino.

Il “conflitto dimenticato” quello, che John Fitzgerald Kennedy non utilizzò nello scontro globale con il comunismo, scegliendo poi, e mal gliene incolse, il confronto con il Vietminh nel Vietnam meridionale.

La Cina, nel 1993, ha richiesto che l’India cessasse il prolungamento della Dsdbo e ha anche richiesto il rientro delle truppe indiane nel quadrante Nord del Ladakh, ma l’India è bloccata dal terrorismo interno, che è notevolissimo, dalle forti tensioni nel Jammu-e-Kashmir, dalla politica, tradizionale, di contrapposizione al Pakistan, infine dalle nuove dinamiche marittime nel sud e dalla sempre più difficile convivenza tra indù e islamici.

Certamente, l’Armata di Liberazione Popolare cinese può combattere tre guerre moderne simultaneamente: quella cyber, quella nello spazio e, infine, la guerra elettromagnetica.

In termini convenzionali, la Cina può oggi combattere una guerra regionale limitata e una guerra globale di maggiore ampiezza, sempre contemporaneamente.

Quindi, cosa vuole davvero Pechino dall’India? In primo luogo, le mani libere su un confine, come quello del Ladakh, che è vitale per la già iniziata Nuova Via della Seta.

Molti dirigenti indiani, peraltro, chiedono da tempo alla Cina di far passare il corridoio Bri da Kunming, nella Cina sud-occidentale, fino al porto di Kolkata, dove potrebbe riagganciarsi alla “Via” marittima attraverso la baia del Bengala.

Oppure, la Cina e la sua Via della Seta potrebbero entrare da Uttakharand, passando da Kailash Manasarovar in Tibet per poi arrivare al porto di Mumbai. Ecco una delle vere materie del contendere.

Quindi, i cinesi non dovrebbero passare, con la loro Bri, tra le valli del Kashmir, ma nelle aree indiane. L’India, peraltro, si è rapidamente chiamata fuori dal Rcep, Regional Comprehensive Economic Partnership, la grande zona di libero scambio fondata nel 2012. Un implicito favore alla Cina.

E allora, cosa vuole davvero la Cina? Intanto, utilizzare l’area del Ladakh e il Kashmir come basi e criteri di controllo per il Tibet.
L’area in basso, dove staziona l’esercito indiano, a sud del Brahmaputra, è comunque facile oggetto di lanci missilistici da parte dei cinesi.
Se poi si sommano le truppe cinesi nel Ladakh e quelle già presenti nella regione autonoma tibetana, l’Armata di Liberazione Popolare è, oggi e di fatto, padrona del campo.

Ma, se Narendra Modi, il presidente indiano, dà dei segni evidenti di riallineamento di Nuova Delhi sulla strategia Usa nell’area, allora la chiusura strategica dell’India a Nord diverrebbe inestricabile. E molto pericolosa, non per una guerra, ma per gli effetti strategici e geo-economici della chiusura a Nord. Le truppe indiane sul confine del Ladakh non sono comunque un obiettivo della Cina.

A parte la valle di Galwan, Pechino è pronta a trattare duramente su tutto il resto.
Ovvero, Pechino vuole la sicurezza piena delle linee intorno al Territorio Autonomo Tibetano, la discontinuità-controllo delle forze pakistane sul confine indiano-cinese, la massima mobilità delle sue forze e infine la sicurezza che non ci saranno pericoli militari che siano ospitati in territorio indiano.

Pericoli jihadisti o meno. Quindi, la Cina non ha bisogno di fare la guerra all’India nella misura in cui può costringere il governo di Nuova Delhi a fare quello che vuole Pechino.

La Cina vuole, poi, riaffermare la mutua neutralità tra Pechino e Nuova Delhi, mentre pensa che Narendra Modi abbia delle mire, soprattutto di tipo nazionalistico, nell’area himalayana e nell’arco dei Tre Confini.

Peraltro, alla Cina non è affatto piaciuto il rafforzamento dei rapporti tra India e Australia, mentre non è nemmeno piaciuta a Pechino l’abrogazione indiana dell’art.370 dello statuto dello Jammu-e-Kashmir, ovvero lo “statuto speciale” dello stato indiano a maggioranza musulmana.

Ciò ha creato, nell’ordinamento indiano, l’Unione del Territorio del Ladakh. Alcune mappe cinesi disegnano oggi già il territorio di Aksai Chin, dove Cina, India e Pakistan si incontrano, con confini che dimostrano, secondo Pechino, che l’India si sta espandendo in modo illecito.

In sostanza, l’India di Modi ha scelto da che parte stare, nella prossima e comunque già iniziata “guerra fredda”. La parte degli Usa e del contrasto strategico con la Cina.

La tensione territoriale sino-indiana va oggi dal Lago Pangong, e dalla valle del fiume Galwan, poi dall’area di Gogra fino a Naku La nel Sikkim. Nessuna delle due parti, comunque, riconosce l’estensione delle loro rispettive richieste nella zona del Lac e intorno al Lago Pangong. I militari cinesi nell’area vengono dal 362° Reggimento di Confine e sono acquartierati nel Forte Khurnak, a nord del lago Pangong, e al lago Spanggur. Inoltre, c’è una base cinese a Gongra e uno squadrone di barche sul lago Pagong. Siamo, indicativamente, a 600+1500 elementi. A nordovest, ci sono altre truppe cinesi, della 6° Divisione Meccanizzata.

La sede è nel deserto del Taklamakan, ma si tratta soprattutto di riserve che provengono dallo Xinkiang. Ecco un importante obiettivo strategico di Pechino: evitare la porosità di un confine che riguarda direttamente lo Xingkiang.

Per Narendra Modi, il leader indiano, ci sono quindi due scelte da fare, una economica e una strategica: o lanciare l’India come concorrente globale della Cina, assorbendo le molte future lavorazioni “terze” e, quindi, diventa razionale un controllo attivo dei confini e una guerra regionale, addirittura, con Pechino, oppure Nuova Delhi potrebbe unirsi a Pechino, via la “Nuova Via della Seta” e la globalizzazione sinocentrica. È una scelta ancora in fieri, malgrado le vecchie chiacchiere sulla Cindia di qualche anno fa.

Sul piano delle guerre economiche e commerciali, la questione si fa ancora più complessa. La Cina Popolare, oggi, ha avuto nel primo trimestre del 2020 un Pil di 20.65 trilioni di yuan, ovvero di 2,91 trilioni di usd. Meno del 6,9% rispetto al Pil dell’anno precedente. Molto, ma certo meglio di tanti paesi occidentali. Sono diminuite dell’8,5% le importazioni della Cina. Una condizione che non permette a nessuno di iniziare una guerra, nemmeno regionale o locale.

Nella sola prima metà del 2019, la guerra tariffaria della Cina con gli Usa è costata ben 35 miliardi, solo a Pechino. Combattere con l’India significherebbe perdere, per la Cina, 74,72 miliardi di dollari provenienti dal ricco e amplissimo mercato indiano.

Il Pakistan, un alleato sicuro di Pechino, è in piena crisi economica e non può permettersi una guerra, e rimane quindi solo il minuscolo Nepal, sul quale, certamente, non si può fare affidamento per una “guerra di lunga durata”. Sul piano strettamente militare, la Cina è largamente più efficiente dell’India. 104 missili cinesi potrebbero colpire ogni parte del territorio indiano. 12 missili DF-21s tengono di mira direttamente Nuova Delhi. I DF-31 sono di stanza a Beidao, provincia di Gansu, alcuni DF 21 e 31 sono dislocati a Xining, altri DF-21 sono di stanza a Korla, nello Xingkiang, e altri ancora nello Yunnan.

Per l’India, dieci missili “Agni” possono raggiungere l’intero territorio cinese. Altri 8 Agni II possono raggiungere il centro della Cina. Ma ci sono 51 aerei, la vera chiave della difesa N indiana, che possono sorvolare obiettivi nel territorio cinese. Ma, soprattutto, obiettivi tibetani e nello Xingkiang.

Solo le missioni indiane in Tibet potrebbero sfruttare una sorpresa strategica, altrove i Mirage 2000, i Jaguar IS e gli F-35 non avrebbero molta fortuna, visto il livello della contraerea cinese.

Le forze indiane disponibili per uno scontro con la Cina nel Nord sono oggi circa 225.000.
Questo comprende anche la base di carri armati T-72 nel Ladakh e una serie di missili Bramhos da crociera, di stanza nell’Arunachal Pradesh.

I tre comandi delle FF.AA. indiane che si scontrano con i rispettivi tre comandi cinesi hanno poi a disposizione 270 aerei e altro materiale.
I cinesi, d’altra parte, hanno basi aeree di alta quota, tra Tibet, Xingkiang e Ladakh del Nord. Il che implica che gli aerei di Pechino debbano partire con solo una parte del loro carico.

Da ciò deriva che i decisori cinesi pensino subito a un attacco missilistico sulle postazioni indiane, senza un primo “passaggio” aereo.
Naturalmente, c’è anche da dire che l’India è duramente contraria al Corridoio Economico Cina-Pakistan, che passa dal Kashmir e dall’area del Gilgit-Baltistan, un progetto che l’India ha tentato di bloccare on l’aiuto degli Usa.

L’India, d’altra parte, ha costruito molte infrastrutture nella sua parte di Kashmir. Dall’altra parte, lo abbiamo già visto, c’è stata la chiusura economica dell’India, un vero regalo per Pechino.

Nel frattempo, l’India ha chiesto alla Russia di inviare rapidamente gli S-400 e i Sukhoi SU 30 MKI, ma Mosca non ha alcun interesse a mediare tra Cina e India.

E c’è sullo sfondo un indurimento delle relazioni bilaterali Mosca-Pechino, che potrebbe lasciare uno spazio ai russi, non per una mediazione tra i due, ma per la ricostruzione dell’antico legame tra l’Urss e l’India, un legame che fu anche tra le cause della tensione tra Cina maoista e Russia sovietica.


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