“Vai in ufficio un solo giorno a settimana, ci stai dieci ore o più e maturi il massimo di straordinario al mese”: questo l’incipit dell’articolo a firma di Monica Guerzoni apparso lo scorso 30 giugno sul Corriere della Sera dal titolo “Smart working, dipendenti di Palazzo Chigi presentano ricorso contro il Premier”.
L’articolo richiamava l’attenzione su un ricorso mosso dai dipendenti della Presidenza del Consiglio dei ministri verso Giuseppe Conte perché non sarebbero state negoziate le modalità di lavoro agile e sarebbero stati sospesi gli straordinari. Apriti cielo! Sui quotidiani e in rete si è gridato allo scandalo per i soliti “garantiti” che, non paghi di conservare cadrega e talleri nell’emergenza, pretendono impunemente gli straordinari ordendo nel loro latinorum il solito espediente all’italiana.
Peccato che le cose, come spesso accade quando si parla di cosa pubblica, non stessero esattamente così. Non solo si trattava di un ricorso di taluni sindacati della Presidenza e non della totalità dei dipendenti di Palazzo Chigi (d’accordo, peccato veniale), ma nulla c’entravano straordinari e lavoro agile: il ricorso riguarda, in realtà, l’applicazione dell’istituto della cosiddetta protrazione che, nel contratto integrativo per la Presidenza, prevede per i dipendenti un orario maggiorato e che, per motivi legati all’emergenza sanitaria, era stato sospeso nei giorni di presenza fisica. Deciderà un giudice sulla questione che attiene, in ogni caso, alla dinamica, pure talvolta turbolenta, dei rapporti fra parte datoriale e sindacati che, del tutto legittimamente, possono decidere di far valere le proprie ragioni nelle sedi appropriate.
Quel che colpisce, nella vicenda, è la reazione, tutta pavloviana, di certa fetta dell’informazione – e, a ruota, del cosiddetto “popolo della rete” – ad una circostanza le cui basi informative, con ogni evidenza, non erano state adeguatamente approfondite. Un messaggio distorto ha dato la stura all’usuale attacco ai dipendenti pubblici, con un riflesso condizionato che rivela quanto si agiti nella pancia del Paese quando si tratta di lavoro pubblico. Ancora una volta, è bene esser chiari: non si intende difendere per partito preso la macchina pubblica, i dipendenti e le modalità di funzionamento della Pubblica amministrazione. I problemi che affliggono i tanti pezzi delle amministrazioni di Stato, enti, regioni e comuni sono molti e diversificati e attengono a dimensioni complesse dell’azione amministrativa, sulle quali scarseggiano, purtroppo, riflessioni di lungo respiro. Nulla di nuovo, inutile qui tornarci sopra.
Quel che è davvero intollerabile è che, sull’onda delle aprioristiche denunce dell’efficacia del lavoro agile nel periodo emergenziale, alimentate dalla polemica “vacanziera” lanciata da Pietro Ichino, si conducano campagne che sono contro la storia prima che contro i lavoratori. È sotto gli occhi di tutti che la spallata introdotta dallo smart working di emergenza nella Pa abbia scosso alla radice equilibri consolidati, mettendo in discussione, forse per la prima volta, prassi e modalità organizzative obsolete e non di rado poco efficienti, ingabbiate in una regolazione di dettaglio che rende spesso defatigante qualsiasi iniziativa di creatività. Lo sconquasso provocato dall’epidemia da Covid-19 ha destabilizzato un’intera cultura interna, spostando d’un fiato il piano della discussione dalle impronte digitali per l’accesso agli uffici pubblici ad un approccio tutto per risultati, indipendentemente dalla collocazione fisica della lavoratrice e del lavoratore. Allo stesso tempo, a fronte di risultati spesso inaspettati, sono dietro l’angolo rischi che è doveroso sin d’ora affrontare, come indica, con efficacia, Beppe Severgnini, evidenziando le ricadute negative di un lavoro agile senza paletti.
È il momento, insomma, di ragionare assennatamente su un efficace mix di presenza e remoto, salvaguardando il balzo in avanti compiuto nelle teste di molti e convincendo chi, nelle stesse amministrazioni, trova difficoltà nell’adattarsi ad un sistema che richiede flessibilità e affidamento su un rinnovato patto fiduciario tra lavoratori e fra di loro e i cittadini. Il terremoto in atto, tuttavia, pare non piacere a molti – è interessante tentare di capire i perché – e ogni occasione sembra ghiotta per avvelenare i pozzi di un dibattito che fatica ad escludere posizioni pregiudizialmente ostili o che, come nel caso del sindaco di Milano Beppe Sala, rischia di sviare la discussione sulla presunta desertificazione dei centri urbani senza affrontare, al contrario, il ben più impegnativo tema della riorganizzazione della vita delle nostre città a seguito dell’adozione di nuovi modelli organizzativi del lavoro, privato e pubblico.
Ecco, all’interno del complicato ginepraio che aspetta chi dovrà trattare di lavoro agile nei prossimi mesi, all’informazione spetta il delicato compito di dar spazio a tutte le opinioni, anche le più diverse, ma – auspicabilmente – senza desolanti partigianerie e, soprattutto, offrendo un quadro fattuale che non depisti il lettore. Non pare una richiesta irragionevole.