Nelle ore in cui papa Francesco ricordava con i suoi collaboratori l’anniversario del suo primo viaggio apostolico, la visita a Lampedusa e quella famosa omelia nella quale ci chiese “dov’è tuo fratello?” , il mondo apprendeva che Russia e Cina avevano opposto il veto alla risoluzione Onu per estendere di un anno gli aiuti umanitari transfrontalieri ai milioni di sfollati di Idlib.
Ora la Russia propone che i corridoi scendano da due a uno e l’estensione venga limitata da un anno a sei mesi. Damasco insiste che gli aiuti per i siriani passino sempre e solo da Damasco, non attraverso i confini terrestri. E così il governo che da dicembre bombarda quegli sfollati dovrebbe esso stesso soccorrerli. Dunque arriva il coronavirus e il mondo, se va bene, dimezzerà gli aiuti umanitari a milioni di indigenti per guerra. Questo però in alcuni report sul dibattito all’Onu non viene spiegato, il racconto appare ”distillato”.
E proprio il racconto distillato è stato al centro dell’omelia pronunciata da Francesco nell’anniversario del suo viaggio. Ecco cosa ha detto esattamente il papa: “Ricordo quel giorno, sette anni fa, proprio al Sud dell’Europa, in quell’isola… Alcuni mi raccontavano le proprie storie, quanto avevano sofferto per arrivare lì. E c’erano degli interpreti. Uno raccontava cose terribili nella sua lingua, e l’interprete sembrava tradurre bene; ma questo parlava tanto e la traduzione era breve. Mah – pensai – si vede che questa lingua per esprimersi ha dei giri più lunghi. Quando sono tornato a casa, il pomeriggio, nella reception, c’era una signora – pace alla sua anima, se n’è andata – che era figlia di etiopi. Capiva la lingua e aveva guardato alla tv l’incontro. E mi ha detto questo: ‘Senta, quello che il traduttore etiope Le ha detto non è nemmeno la quarta parte delle torture, delle sofferenze, che hanno vissuto loro’. Mi hanno dato la versione ‘distillata’. Questo succede oggi con la Libia: ci danno una versione ‘distillata’. La guerra sì è brutta, lo sappiamo, ma voi non immaginate l’inferno che si vive lì, in quei lager di detenzione. E questa gente veniva soltanto con la speranza e di attraversare il mare”.
I distillati, come si sa, ci aiutano a digerire anche l’indigeribile, ci aiutano a non immaginare, a non essere inquieti, il nostro pensiero con i distillati può rimanere tranquillo, completo, assuefatto. E invece Francesco suggerisce esattamente il contrario: lui propone inquietudine, incompletezza di pensiero, immaginazione. Solo l’immaginare quel che succede in quei lager libici saprebbe farci avere una reazione non ideologica, ma umana. Solo l’inquietudine per quanto accade realmente al di là del nostro mare potrebbe portarci a una vera pace, solo rinunciare all’idea che sappiamo tutto potrebbe farci ammettere che abbiamo bisogno di cambiare noi.
Non è la prima volta che Francesco ricorda il suo viaggio a Lampedusa, il viaggio che ha aperto una serie di viaggi che lo hanno portato su tutte le cicatrici, le linee di faglia planetarie. Non solo a Lampedusa, ma anche nell’orrore di Lesbo, al confine tra Stati Uniti e Messico, a quello tra Venezuela e Colombia, nei campi profughi del Bangladesh. Sono stati viaggi uniti da una sola emergenza, e da un’urgenza: evitare che un racconto distillato acquieti le opinioni pubbliche davanti a tragedia determinata da conflitti, disastri ambientali, terrorismi, spoliazioni. È l’altra faccia dell’economia che uccide. Non dettata da regole finanziarie, ma da comportamenti. Così questo giorno di luglio, anniversario del primo viaggio apostolico di Francesco, è diventato un po’ la giornata mondiale contro i racconti semplificati, i distillati.