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Media, democrazia e costume politico. L’analisi del prof. Corbino

Di Alessandro Corbino

Osservare la discussione che accompagna quotidianamente nei talkshow televisivi più seguiti lo svolgersi della nostra vita politica dovrebbe fare riflettere. Favorisce un costume nel quale dominano improvvisazione e impreparazione. Non avviene sempre e dovunque. E tuttavia avviene sempre più. Si incoraggia la “disinvoltura argomentativa”. E con essa anche l’aggressività verbale.

I temi proposti vengono discussi (persino da coloro che vi intervengono da protagonisti attivi della vita parlamentare e politica) senza puntuale informazione. E comunque senza possibilità alcuna (anche per chi la possiede) di trasmettere la necessaria a coloro che ascoltano. Il vero “interesse” coltivato da chi programma quegli spazi di intrattenimento è la “pubblicità” che essi permettono di attivare.

La questione è molto più seria di quel che non possa sembrare. Ripete in qualche modo l’antica esperienza dei cambiamenti di costume indotti a suo tempo dall’avvento delle televisioni commerciali. Con una differenza. La cosa non investe, come allora, il nostro “privato”. Tocca ora i fondamenti della nostra “cultura” politica. Non possiamo attenderne gli effetti emancipatori. Ha ricadute generali immediate.

Da quando (sono anni ormai) è cresciuta la possibilità di sottrarsi alla intermediazione (ordinaria/necessaria) della informazione, ciascuno di noi è divenuto (grazie ad internet) un’isola. Siamo in grado di formarci un’opinione diretta su tutto. E dunque anche in politica. Il che è ovviamente, in democrazia, un fatto che ne esalta la funzione. Cresce la nostra possibilità di essere cittadini “incidenti”.

L’ “opinione pubblica” importante (nel senso di influente) è sempre meno quella di chi “studia” i fenomeni (sulla base dunque dell’informazione che genera “competenza”). Essa è stata sostituita da quella “rilevata” (attraverso i sondaggi che registrano le nostre reazioni immediate – emotive  dunque – ai fatti). Coloro che svolgono azione “politica” vi guardano con un interesse che supera di molto quello che essi rivolgono ancora alle opinioni dei “competenti”. L’urgenza del mostrarsi “attenti” ai “tanti” prevale su quella di esserlo agli “utili”. La stella polare di tutti è il consenso “momentaneo”.

Viviamo in un tempo nel quale la “comunicazione” ha invaso la nostra vita. Tutti possiamo e vogliamo sapere. E tutti vogliamo dunque interloquire (lo sto facendo anch’io). Le televisioni cavalcano la circostanza. Un poco per necessità (non possono non stare al “passo” con la “notizia”, la quale a sua volta si produce ad un ritmo che non conosce intervalli). Molto per convenienza (vivono dell’ “audience”, che vendono ai pubblicitari).

Sarebbe insensato non averne considerazione. Ma è molto rischioso ignorare le conseguenze che il fenomeno comporta.  Le nostre determinazioni individuali hanno assunto un ruolo sostanziale molto superiore a quello di una volta. Non solo perché esse si traducono in voto (dunque in giudizio sull’operato di chi governa) con una libertà molto superiore a quella di un tempo. Ma anche perché influiscono (attraverso i sondaggi, divenuti infatti un fenomeno sempre più diffuso e seguito) l’azione politica quotidiana. Orientano chi la conduce.

In questo cambiamento di cose sta una delle principali ragioni delle palesi difficoltà che attanagliano le nostre “liberaldemocrazie” contemporanee. Vivono le conseguenze di una contraddizione irrisolta. L’estensione delle possibilità “partecipative” non è stata accompagnata da una corrispondente “crescita” dello “statuto culturale” del singolo decidente. Della sua capacità di operare con consapevolezza (dunque appropriata informazione).

Quando avevano rilievo le “mediazioni” la circostanza contava di meno. Il problema era allora come arginare il dominio dei “medianti”. Nel nuovo contesto, il problema è divenuto come impedire che perda di rilievo la “competenza”. Illudersi che i cambiamenti non generino problemi è solo da sprovveduti. Ma lo è  di più consegnare loro le chiavi della nostra esistenza collettiva (della nostra “politica”).

Un effetto salutare della crescita delle nostra democrazia (la maggiore possibilità di “indipendenza” di ciascuno) si sta trasformando in un effetto distorsivo di essa. Svincola la decisione dalla riflessione (un fatto che presuppone informazione, e dunque capacità di valutarne le ricadute) per affidarla all’emozione (un fatto che presuppone solo un’empatia immediata ed effimera).

Dobbiamo recuperare coscienza del fatto che la democrazia è nata per il governo di “piccole” (e semplici) comunità (nelle quali la “comunicazione” si stabiliva ordinariamente senza necessità di mediazioni) e che il suo adattamento a comunità diverse (per dimensioni e/o complessità) non è perciò un risultato “meccanico”.

Non può essere la conseguenza del semplice trasferimento di quel metodo di decisione ad ogni realtà comunitaria. Non è un problema solo di “dimensioni”. È una questione di presupposti sostanziali. La “democrazia” (come qualunque metodo di governo) presuppone uno statuto del cittadino “decidente” non solo “giuridico” (fatto dunque di diritti e doveri) ma anche “culturale” (il suo “personale” fattuale modo di vivere quello statuto). Ed è questo secondo (non il primo) che ne rende “efficace” la pratica.

La “uguaglianza” dei decidenti non è data dalle forme. È data dalla esistenza (nella comunità che l’adotta) di presupposti materiali (ancorché ovviamente storicamente variabili e sempre discutibili e discussi) che rendano giustificata (per il grado di informazione posseduta che, in questo, li fa tendenzialmente “uguali”) la “neutralizzazione” politica delle (insuperabili) diversità sostanziali (che essa non ha mai infatti conculcato) dei singoli ai quali si riconosce condizione di “cittadini”.

La sua adozione – nelle società contemporanee (estese e complesse) – ha funzionato abbastanza perciò fino a quando essa ha convissuto con tale consapevolezza. Fino a quando è stata coniugata con una visione di “allargamento progressivo” della partecipazione (suffragio e diritto di rivestire funzioni pubbliche), calibrato sul constatato conseguimento di presupposti giustificativi.

Ha cominciato a vacillare da quando si è abbandonata ogni prospettiva “gradualista”. Da quando la misura per definire l’uguaglianza (che legittima la “cittadinanza” politica) è venuta spostandosi da un parametro giuridico-sociale ad uno naturale. Da qualche decennio è venuta imponendosi l’idea che non si “diventi” (politicamente) uguali (per conseguimento di presupposti), ma che si “nasca” uguali. Con la conseguenza che “storie” (individuali/collettive) e “abilità” conseguite vengono perdendo rilievo. Siamo sempre all’“uno vale uno” di Euripide. Ma in un senso che con quello non ha più parentela alcuna. Ne è solo l’eco “orecchiata”.

L’ “uno” dei Greci era “qualificato” (dalla condizione giuridica e fattuale, legata a condizioni di contesto, che rendevano praticabile un esercizio “informato”, consapevole, della  “cittadinanza”). Quello dei contemporanei è “indistinto”. Non dà rilievo alcuno al grado di consapevolezza. Fa coincidere la cittadinanza “politica” (per l’aspetto almeno del suffragio) con la condizione di “vivente” adulto. Il che ha cambiato radicalmente il quadro.

Sono state abbattute le strutture politiche di mediazione e siamo stati frettolosamente promossi tutti ad un ruolo se non ancora di “decidente”, sicuramente di “influente” diretto. Si è dato alle nostre opinioni (sondaggi) un rilevo grandissimo. Trascurando che la cresciuta possibilità di accesso diretto alla informazione non supera in alcun modo la esigenza di mediazioni “conoscitive” (e dunque anche deliberative).

Ne è stata attenuata la dipendenza “passiva”. Non la necessità. È cresciuta di molto la capacità di osservare i risultati. Non anche quella di determinarli direttamente. Certo, la cultura media è oggi incomparabilmente superiore a quella di non troppi decenni addietro. Ma questo non vuol dire affatto che possiamo fare a meno (oggi come domani) di “mediazioni” (conoscitive e deliberative).  Ne avremo piuttosto maggiore necessità. Crescerà con il crescere (inevitabile) degli “specialismi” ai quali il nostro “sapere” deve sempre più piegarsi.

O usciamo dalla illusione nella quale siamo precipitati. O le nostre democrazie moriranno.

Torni pure dunque l’agorà nelle forme rese possibili dalla modernità. Purché seria (e preordinata alle sue ragioni). Non lo è quella che favorisce la bulimia di approssimazione alla quale siamo sollecitati. E molto meno ancora lo è l’invito implicito alla disinvoltura e all’improvvisazione che si legge nella “ordinaria” elevazione ad “opinion makers” di personaggi noti, le cui (indiscutibili) benemerenze (artistiche, sportive, letterarie) in niente si legano alla “competenza” sugli argomenti sui quali li si sollecita.

Come non lo è per altro l’assenza di autocontrollo con cui anche persone di indiscussa “competenza” (in questo o quel campo) si ritengono esse stesse in grado di esprimere “giudizi” e “suggerimenti” su materie (di grande complessità tecnica, quali sono anche le giuridico-istituzionali e le economiche) delle quali non hanno con evidenza la minima idea.


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