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Il patto di desistenza tra Pd e M5S per le regionali spiegato da Caldarola

Non c’è più il voto che i partiti riversano in massa sui candidati, dice a Formiche.net il giornalista ed ex parlamentare diesse, Peppino Caldarola, per il quale la mossa a cui dem e grillini guardano si chiama desistenza. Le regionali di settembre come camera di compensazione anche per i futuri scenari legati al governo nazionale, su cui si concentrano le due macro linee in fermento e in opposizione tra loro: la strada di Conte, con un “catto-populismo” che ricalca la sinistra diccì e dall’altro lato la spinta liberal-radicale (foraggiata da Di Maio) per un governo di emergenza guidato da Draghi.

Pd e M5S provano a non perdere le regionali: il modello Emilia Romagna con il voto disgiunto può essere una strada per fermare le destre o servivano da subito candidati comuni?

Penso che lo stato dei rapporti tra Pd e M5S sia in continua evoluzione, anche perché i grillini appaiono una formazione politica con ampie divisioni al proprio interno, come quella tra l’ex capo politico e il premier. L’idea che si potesse arrivare a candidati comuni è una suggestione abbastanza difficile da realizzare.

Quale il passo dunque?

Più semplice, invece, fare con il M5S ciò che si faceva in passato con Rifondazione Comunista con cui si giunse ad una sintesi con Nichi Vendola nel 2005 in Puglia. La regola potrebbe essere a questo punto la desistenza: dove uno ha il candidato più forte, l’altro decide di non impegnarsi a morte. La cosa ha particolare valore nei punti di maggiore svolta, come la Puglia dove è evidente che Emiliano risulterà decisivo per il Pd, a prescindere da cosa il Pd pensi di lui, per impedire il ritorno di Fitto. Se dopo quasi un ventennio di centrosinistra al governo, con Vendola ed Emiliano, si dovesse tornare alla casella di partenza sarebbe una sconfitta senza precedenti per i dem.

Puglia e Campania rappresentano due realtà diverse ma comunicanti: Emiliano e De Luca pescano in bacini trasversali. La differenza la farà la mossa renziana?

I renziani hanno giocato uno scherzo terribile a Emiliano, non già per il candidato, visto che Scalfarotto è solo anagraficamente pugliese. Il voto renziano, piccolo o grande che sia, è un gesto politicamente significativo che indica come sia poco sanabile il rapporto tra Pd e ItaliaViva. Lo dimostra anche la storia dei due candidati. De Luca ha un buon rapporto con i renziani ed è positivo per lui. È un personaggio abbastanza lineare nella sua autenticità: ha creato un’immagine di sé molto forte, tra l’autoritario e l’autorevole. Emiliano ha fatto la medesima operazione, ma la Puglia ha più facce: come dimostra il nome originario, Le Puglie.

Da qui la ricerca del consenso trasversale?

Emiliano è stato sin dal principio un candidato barese, quindi ha avuto dentro di sé la necessità di cercare. In questa sua ricerca si è rivolto con straordinaria disinvoltura verso tutti i lidi, anche quelli apparsi non solo lontani ma letteralmente opposti, rivelando in questo una maggiore debolezza rispetto a De Luca, in quanto il suo bisogno di alleanze trasversali non è segno di forza ma di debolezza. Per cui siamo dinanzi a due candidati di grande personalità, con una capacità l’uno di dialogare anche con un mondo che gli è lontanissimo, come i renziani, l’altro che è più empatico e a cui piace piacere, che ha perfino fatto un favore a Renzi, non partecipando ad una scissione dentro la quale c’era fino al penultimo minuto. Mentre De Luca puntando su se stesso ha guardato al mondo che aveva abbandonato il suo partito, Emiliano nella ricerca di alleanze ha dato l’idea a pezzi di mondi suoi di non averli in considerazione.

È sufficiente avere tanti amici nel Pd (copyright Ferruccio Sansa) per dare aria ad un progetto politico di medio-lungo periodo che, per essere tale, necessita di costrutto e visione?

Abbiamo dinanzi a noi la prosecuzione di un fenomeno che dura da anni: i partiti non-partiti. Alcuni di questi, come il Pd, riescono a riaggregarsi attorno a termini a cui il loro elettorato si affeziona, come sinistra o democratico. Ma sono cose che non hanno il senso che sottolinea Sansa. L’operazione oggi in corso è di duplice matrice. In primis capire cosa accade davvero nel centrodestra: se è vero che la leadership di Salvini inseguita da quella di Meloni possa essere elemento di novità. E’un dato analitico. Nel campo avverso abbiamo due ipotesi, entrambe come base ciò che resta del M5s: l’una fa a capo a Conte. Il premier è allievo di Villa Nazareth, figlio di una componente di sinistra diccì, che si è inabissata dopo la crisi della Prima Repubblica e che poi è riemersa, fornendo non solo Conte ma una serie di personalità che il premier sta collocando nei settori chiave. Mentre Di Maio mette i compagni di banco, Conte piazza professori legati all’esperienza cattolica di sinistra. Lì può nascere quell’ipotesi contrastata da Di Maio.

E la seconda?

È di tipo radical-liberale, che tende a definire il “catto-populismo” di Conte come un guaio per il Paese, per cui lavora ad una svolta liberale con Draghi premier di un governo di emergenza. Una sorta di Monti per mille, con i favori anche di Salvini. Per cui quello a cui fa riferimento Sansa è piccola politica e può valere forse solo per la sua candidatura, che vedo fragile. Sansa non ha capito che oggi i voti non li portano più i partiti, possono semmai dare un contributo in aggiunta alle capacità personali. Il caso emiliano lo dimostra: Salvini aveva messo in campo un personaggio inadeguato, sostituendola con se stesso, e gli emiliani hanno risposto con un uomo concreto che hanno riconfermato, nonostante la lista Lega sia giunta a pochi passi dalla lista del Pd. Quello il paradosso.

twitter@FDepalo

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